MAROSIA CASTALDI: napoletana, vive a Milano.
Ha studiato filosofia a Napoli e arte a Brera.
Ha pubblicato i racconti Abbastanza prossimo (Tam Tam 1986), Casa idiota (Tringale 1990), Piccoli paesaggi (Anterem 1993); i romanzi La montagna (Campanotto 1991), Ritratto di Dora (Loggia de' Lanzi 1994), Fermata Km. 501 (Tranchida 1997), Per quante vite (Feltrinelli 1999), Che chiamiamo anima (Feltrinelli 2002), Dava fine alla tremenda notte (Feltrinelli 2004); il saggio La casa del Caos (in "Punteggiature", Holden Maps,
BUR 2001); le prose In mare aperto (Portofranco 2001). Collabora con "Il
Verri", storica rivista letteraria italiana.
Marosia Castaldi: "A vivere s'impara"
- il blog sul sito Giangiacomo Feltrinelli Editore"
MANI
MANI
MANI
Marosia Castaldi
LE MANI DI FRANCIN E LA SELVA DI ANGELICA
Come in un quadro di Caravaggio il corpo
del personaggio compare in pezzi , colpito
in alcuni punti dalla luce, divorato dall'ombra
in altri, così nel racconto di Hrabal, La
tonsura, del 1976, fin dall'incipit, non
compaiono corpi interi ma pezzi di corpo
resi visibili dalla luce emessa dalle vecchie
lampade a petrolio: " Mi piacciono quelle
mie lampade accese alla cui luce porto in
tavola i piatti e le posate, alla cui luce
si aprono i giornali o i libri, mi piacciono
le mani abbandonate sulla tovaglia e rischiarate
dalle lampade, mani umane recise dove, nel
manoscritto delle rughe, si può leggere il
carattere della persona alla quale quelle
mani appartengono….I paralumi verdi di quelle
lampade paffute tagliavano, quasi come un
righello, lo spazio della luce e dell'ombra,
per cui quando guardavo in ufficio attraverso
la finestra, Francin era sempre strappato
in due, un Francin innaffiato di petrolio
e un Francin inghiottito dalla penombra.
I meccanismi di ottone dentro ai quali si
muoveva lo stoppino tirato su e giù dalla
vite orizzontale, quei cestini d'ottone avevano
un tiraggio enorme, quelle lampade di Francin
avevano un tale bisogno di ossigeno che aspiravano
l'aria tutt'intorno per cui, quando Francin
poggiava una sigaretta in vicinanza delle
lampade, quel buco d'alveaere d'ottone risucchiava
i nastri azzurri del fumo, e il fumo della
sigaretta, appena finiva nel cerchio magico
di quelle lampade panciute, veniva risucchiato
inesorabilmente e, attraverso il tiraggio
del cilindro di vetro, divorato dalla fiamma
che sopra il cappelletto splendeva verdognola
come la luce che manda un pezzo di legno
marcio, una luce come un fuoco fatuo, come
il fuoco del profeta Elia, come lo Spirito
Santo sceso nelle sembianze della fiammella
viola che si librava sulla grassa luce gialla
dello stoppino tondo. E alla luce di quelle
lampade Francin annotava nei registri aperti
della fabbrica di birra, la produzione, le
entrate e le uscite, stendeva i rendiconti
settimanali e mensili per poter stendere,
alla fine di ogni anno, il bilancio per l'intero
anno solare, e le pagine di quei registri
splendevano come pettorine inamidate".
In questo brano compaiono non corpi interi
ma "mani umane recise" e un corpo,
quello di Francin , sempre strappato in due
dalla luce e dall'ombra. E tutto rigurgita
in un insieme magmatico per cui il bianco
dei registri, il fumo della sigaretta, i
pezzi di corpo umano, le lampade sembrano
diventare tutti personaggi che, allo stesso
livello, popolano le pagine del libro. Il
personaggio umano che perde la sua priorità
sulla cosalità che lo circonda, che si fa
in pezzi e compare in frammenti è il corpo
del caos.
Il corpo del cosmos è un corpo intergro e
intero che campeggia con la sua priorità
gerarchica sul mondo circostante. E' il corpo
del personaggio di Piero della Francesca.
Non c'è creatura che posi così bene i piedi
per terra come una figura di Piero. I visi
e i piedi si equivalgono. I visi hanno tutti
la stessa espressione. I piedi, sempre uguali,
posano tutti saldamente sul suolo, si radicano
in esso, come alberi dalle radici profonde.
Così fanno i Profeti, così il Cristo risorto
che poggia il suo piede, come pietra, sull'orlo
della tomba da cui emerge. Per quanto arcaico
e contadino, è erede dell'inegrità aurea
del corpo della statuaria greca classica.
Ci sono momenti in cui sembra che l'arte
possa rispondere al bisogno di dire la storia
come un disegno grande in cui le singole
vite possono rientrare e assumere un significato.
L'arte è sempre desiderio di mettere ordine
nel caos, di creare un cosmos, ma, in certi
momenti sembra che la storia stessa abbia
un ordine possibile, un suo fine. E' quello
che accade nel primo Quattrocento, quando
attraverso la perspectiva artificialis ideata
da Brunelleschi e teorizzata da Alberti nel
1436, si crea un reticolo concettuale - visivo
per cui tutta la realtà è dentro il quadro
e il quadro la rappresenta nella sua totalità
significativa. Tutto ciò che è accidentale,
transeunte, brutto, basso non è realtà, perchè
la realtà mira all'ordine. In questo modo
si chiude, come diceva Argan, tutto l'infinito
del reale dentro il finito della tela.
Sono momenti utopici. E durano poco. Già
in Piero la coincidenza tra la storia dei
borghesi suoi contemporanei e il disegno
divino della storia comincia a incrinarsi.
Nella Flagellazione dei borghesi, sulla destra
del quadro, sono presenti all'evento storico
- divino della flagellazione del Cristo,
ma sono proiettati in primo piano, lontani
da quel Dio che diventa sempre più remoto.
Guardano altrove rispetto al Cristo flagellato.
La storia umana e la storia divina della
salvezza cominciano a divergere. Sembra di
essere lontanissimi dalla Natività di Masaccio,
in cui i borghesi inclusi dentro la cornice
guardano direttamente verso il bambino -
Dio entrato nella storia. La storia divina
si umanizza e la storia umana si divinizza,
in una reciprocità che non troverà uguali
in seguito.
Malgrado questo primo scollamento, il corpo
del personaggio di Piero ha ancora dalla
sua l'integrità magnifica di un corpo che
comincerà a spaccarsi in frammenti nei Prigioni
di Michelangelo, nella Pietà Rondanini in
cui un braccio classico emerge come residuo
bellico, dal groviglio informe del corpo
della madre e del figlio fusi in una sola
materia. Si spezzerà nella luce devastante
e nel buio divorante di Caravaggio. Si dissolverà
nel vortice tempestoso di Tintoretto, nella
sua pennellata nervosa, materica. Si dissolverà
anche nel turbinio sconvolto di azione e
paesaggio nell' Orlando furioso dell'Ariosto:"
La donna il palafreno a dietro volta, /e
per la selva a tutta briglia il caccia; /né
per la rara più che per la folta, /la più
sicura e miglior via procaccia: /ma pallida,
tremando, e di sé tolta, / lascia cura al
destrier che la via faccia. / Di su di giù
nell'alta selva fiera / tanto girò che venne
a una riviera". Assorbendola nella selva
in cui si perpetuerà la sua fuga, il paesaggio
si avvinghia alla " bella donna"
più erotico nella stretta di qualsiasi braccia
di personaggio umano. Angelica è un corpo
che fugge dentro il paesaggio.