INGRID BEATRICE COMAN nasce nella Romania dello stivale comunista nell'autunno del 1971. A ventitre anni lascia la sua terra e si trasferisce in Italia, dove continua i suoi studi e si dedica alla passione per la letteratura. Inizia ad adottare l'italiano come lingua di scrittura e frequenta laboratori di narrativa, tra cui quello dello scrittore Raul Montanari, e di sceneggiatura cinematografica, tra cui la Holden di Torino.
Il primo racconto pubblicato in italiano è una storia ambientata nella Russia comunista ("Evghenij che torna…", Ellin Selae, Cuneo, 2001, ri-pubblicato in Sagarana, 2006). Altri racconti: "Il Re della 54" Antologia Onda lunga (Ed. Archivi del '900, Milano, 2001) a cura di Raul Montanari, "La stanza degli ospiti" Il Laboratorio del Segnalibro, (Roma, 2002), "Non ti aspettavo più, Ellin Selae", 2006, "L'odore del pane", antologia Sapori e odori della memoria, a cura di Melita Richter.
La sua scrittura manifesta grande sensibilità verso quella parte della storia che spesso rimane in ombra, fuori dagli schermi televisivi e dalle pagine dei giornali. "La Città del Tulipani", il suo primo romanzo, dedicato al popolo afgano, è storia di gente comune, anonimi eroi di una guerra quotidiana da vincere o da perdere in silenzio, lontano dalla luce dei riflettori "(La città dei tulipani", Luciana Tufani editrice, elledi, 2005).
Lavori in corso: "Tè al samovar", un romanzo ambientato nei campi di concentramento sovietici degli anni cinquanta.










Scrivo perché è l'unico mezzo nelle mie mani che mi dà, sia pure per pochi secondi, l'illusione di potermi avvicinare al cuore delle cose e, dunque, anche a me stessa.
Scrivo anche quando lo scrivere fa male, come l'acqua salata su una ferita. Perché tutte le strade sono in salita, e ogni strada contiene in se anche la fatica di percorrerla e l'orizzonte da raggiungere.
Ecco, io scrivo per trovare la strada verso casa.










LA CITTA' DEI TULIPANI - ESTRATTO
di Ingrid Coman


Uno, due, sette, nove, cinque…
Con il viso schiacciato contro il vetro della macchina, Asillah contava, eccitata, quei delicati fiori rossi che non aveva mai visto prima. Finiva le dita di una mano, poi ripartiva da capo, senza stancarsi mai, contava ancora e concludeva che tutto sommato dovevano essere circa… un'infinità, cioè quella cosa che non finisce mai. Il campo di tulipani si allungava fino a confondersi con il cielo. Sembrava l'acquerello fatto all'asilo, quando la maestra le aveva detto di disegnare l'orizzonte e lei aveva sbagliato i colori, mettendoci troppo rosso.
Era l'ultimo capodanno che avrebbero festeggiato insieme.
Avevano fatto il lungo viaggio fino alla moschea di Mazar-i-Sharif, dove il capodanno coincideva con Gul-i-Sorkh, la festa dei tulipani rossi. Il sole rendeva belle tutte le facce che incontrava. Persino quelle dei ciechi e degli storpi seduti in silenziosa preghiera sui gradini, in attesa che un qualche miracolo arrivasse anche fin laggiù, da loro.
"Asillah, siamo alla tomba di Ali. Lui fa miracoli. Coraggio, esprimi un desiderio..." le aveva detto suo padre, quando finalmente erano riusciti ad attraversare la folla e arrivare vicino a quell'immensa scatola celeste che tutti volevano toccare.

Nonostante si fosse alzata in punta di piedi fino a perdere l'equilibrio, Asillah riusciva a malapena ad arrivare con la fronte al bordo di marmo azzurro. Ma capì che lì sotto, da qualche parte, doveva esserci quel signore dei miracoli, benché lei non riuscisse a vederlo. Ci si aggrappò con le mani per non essere spinta dalle gambe degli adulti impazienti, chiuse gli occhi e aggrottò le sopracciglia in segno di concentrazione:
Esprimere un desiderio... Ehm...Vediamo…Una scatola di acquerelli nuovi, un vestito rosso, un papà per la sua compagna Siba, un cucciolo da portarsi nel letto di nascosto, un sorriso da disegnare sul viso triste della mamma e un campo di tulipani rossi dietro casa sua, così avrebbe potuto correre sempre più lontano verso quell'orizzonte imbroglione che scappava sempre… Ecco fatto!

Invece… a correre erano stati solo i suoi anni, che l'avevano trascinata via costringendola a diventare grande troppo in fretta, e cogliendo di sorpresa la piccola Asillah, impegnata ancora su un acquerello rosso troppo abbondante, mentre l'altra Asillah, quella grande, veniva spinta in avanti con violenza. Era come se, camminando nella folla di una città sconosciuta, improvvisamente la gente si fosse messa a correre, e, nella confusione, la donna avesse perso la mano della bambina, rimasta definitivamente indietro.

Con il viso schiacciato contro il vetro minuscolo della sua cella, ora Asillah cercava di cogliere le ombre che scivolavano lungo il muro della prigione di Kabul. Contava le ore che mancavano all'alba, una, due, sette, nove, cinque… e poi ancora, come un dolce ritornello che scongiurasse la paura, nella speranza assurda che qualcuno, al di là del muro, sbagliasse i conti pure lui, confondendo il sole e allungando la notte.
Asillah chiuse gli occhi e rivide l'immensa distesa di tulipani rossi, la luce, la grande moschea di Mazar-i-Sharif, il sagrato di marmo azzurro con piccole macchie rosso scuro, la cupola altissima del colore del cielo, le pietre della vecchia vasca, che riportavano versetti del Corano, la tomba di Ali, ogni anno gravida di un miracolo nuovo.
Si toccò il ventre che sembrava un grosso frutto maturo. Lo sentiva leggermente pulsare. Disse, piano:
"Fa che questo piccolo cuore non smetta di battere all'alba…"






illustrazione della pittrice Roberta Sibio




SEI CAPACE DI FARE UNA RANA?
racconto illustrato dalla pittrice Roberta Sibio



Più di un'ora che la stanno massacrando e ancora si muove, come se la vita, nel frastuono dei calci e delle grida, non trovasse il punto giusto da dove uscire.
"Ancora ti muovi, schifosa?" ripete ostinato Matteo, corrugando la fronte e facendo svolazzare i suoi ricci rossi mentre picchia con la punta della scarpa nel ventre della creatura.
Cerca di dosare i suoi colpi in modo da ucciderla senza spaccare la pelle bianca e tenera della sua pancia: gli hanno appena regalato gli scarponcini scamosciati chiari, se ne è vantato per tutto il pomeriggio, e non vuole sporcarli.
Poi Sandro, che non ha problemi di scarpe nuove perché indossa sempre quelle usate del fratello maggiore, gli calpesta i piedini fino a farli diventare una cosa sola con la terra, tanto che sono affondati nella polvere grigia e sembrano le radici di qualche pianta esotica.
Solo la testa è rimasta intatta, con gli occhi che rifiutano di chiudersi e sembrano fissare il mondo in stupita attesa. Mi mette paura sapere che sono ancora vivi, sembra che mi sgridino e mi accusino; avrei voluto che le sue palpebre si abbassassero come quelle delle bambole quando le metti giù.
Io non partecipo alla spedizione punitiva e le mie scarpette di vernice rosa sono salve. Taccio e guardo. Ma il mio silenzio pende dalla parte sbagliata. Non ho il coraggio di contraddire i miei compagni maschi. Una bambina educata deve andare d'accordo con tutti.
La rana non si muove più. Il freddo le ha paralizzato anche gli ultimi spasmi.
Ce l'abbiamo fatta: l'abbiamo uccisa, quattro scarponcini e un silenzio impaurito hanno cambiato il suo destino di piccola ranocchia curiosa e saltellante e scaraventato la sua vita chissà dove.
Ricordo ancora le parole del libro di zoologia: solo pochi esemplari di girini sopravvivono, gli altri vengono mangiati prima che diventino adulti. Già, ma se poi il girino più vivace e coraggioso, l'eroe di tutti i girini, una volta adulto, deve fare i conti con gli scarponcini di due bambini annoiati? Questo il libro non lo diceva.
Sandro si pulisce gli stivali sull'erba, insistendo ostinato sulla punta. Per un attimo ho l'impressione che cerchi di scrollarsi di dosso l'anima della rana, rimastagli appiccicata allo stivale nella confusione dell'assalto, e d'istinto controllo anche le mie. Poi allungo il passo verso casa dietro ai miei compagni.
Entriamo e Matteo corre da mia nonna a raccontare il suo gesto eroico, come per chiedere un premio al valore o almeno una fetta di torta alle mandorle.
Vedo gli occhi lucidi della nonna e capisco che il premio di pasta sfoglia non ci sarà. Lei mi cerca con lo sguardo senza dire niente. Poi prende Matteo per le spalle, si abbassa fino a che i loro visi quasi si sfiorano, faccia a faccia, costringendolo a guardarla negli occhi.
"Sei capace di fare una rana, tu?"
"Ehmmm….no" balbetta Matteo, gli occhi sbarrati e il disegno della bocca piagnucolante.
"Allora non puoi neanche ucciderla!"
Poi prende i due amici, schiacciati spalla contro spalla dalle sue mani decise e li mette fuori dalla porta. Per un po' rimangono ancora uniti, come se quell'inaspettata punizione li avesse resi siamesi, più fratelli nella paura che nell'eroismo.
Poi Matteo tira su col naso, piagnucolante, e si mette a correre verso casa, senza vittoria e senza trofei di pasta sfoglia, deluso e umiliato come un guerriero che di colpo si accorge del suo cavallo è finto e della sua armatura di carta pesta. La luce fuori si sta indebolendo, ma non abbastanza da non farmi notare la macchia scura che si allunga sui suoi pantaloni di velluto celeste, imbrattando le sue scarpe nuove. Ecco, il mio eroe preferito dai boccoli ramati si è appena fatto la pipi addosso.
Sandro lo segue, svogliato, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni deformi, più dispiaciuto per il gioco interrotto che per i rimproveri di mia nonna. Dà un calcio a un sasso, sputa con enfasi e se ne va senza fretta.
Chiudo la porta dietro di loro, soffermandomi su ogni movimento, come al rallentatore. Potrei stare qui a chiuderla e aprirla tutta la notte, penso, finche le sue e le mie giunture non cederanno. Sarebbe infinitamente meglio delle parole che devo affrontare fra poco. Come sono corti certi minuti, finiscono prima ancora di cominciare, nemmeno il tempo di sbattere le palpebre una volta. A volte immagino il tempo come la mia gomma americana da allungare e accorciare come voglio.
Ma la nonna non mi sta guardando. I suoi occhi verdi sono abbassati su un ricamo di fiori d'arancio.
C'è già la cena pronta ma lei non mi farà compagnia stasera.
Decido di andare a letto senza mangiare. E' come se volessi punirmi da sola per redimermi dalla rabbia silenziosa di mia nonna e dal fardello inutile del mio senso di colpa.

Mi chiedo se sognerò le rane stanotte, o gli scarponcini di Matteo battezzati dalla pipì, o i fiori d'arancio infilati nell'ago di mia nonna come fossero farfalle, o una porta da aprire e chiudere per l'eternità. Sono stanca e i pensieri mi scivolano sotto le coperte come la polvere che scaccio sotto il tappeto quando tocca a me scopare il salotto.
Ho sonno. Chissà mai che l'anima di quella ranocchia non si sia posata sulle mie scarpette rosa, nella confusione della sua morte?
Dopo tutto, erano le uniche pulite…





illustrazione della pittrice Roberta Sibio



La stessa luce di un pomeriggio di novembre, lo stesso fruscio indefinito di vento e voci indistinte, tra foglie secche e stracci abbandonati sul campo. Ma in mezzo a queste giornate gemelle di un autunno qualunque c'è uno spazio grande abbastanza da farci stare vent'anni di vita, seppure un po' stipati insieme, come vestiti ingombranti in una valigia troppo piccola.
Seguo il generale Freddi da due giorni; devo consegnare il servizio su di lui prima di venerdì e non ho ancora scritto niente. Sono stanca della sua arroganza e del suo sguardo ammiccante quando ci troviamo a cena. E' tanto convinto del suo fascino di cinquantenne snellito dalla divisa quanto delle sue doti militari. Sorrido e mi fingo lusingata, la sua benevolenza mi serve davvero in questo momento: se non consegno questo dannato articolo, stavolta potrebbero anche sbattermi fuori dal giornale.

"Sì, lo voglio il caffè, grazie", dico, benché sappia di catrame e mi terrà sveglia anche stanotte.
Ma Freddi non fa in tempo a sfoggiare le sue buone maniere e io, la corteggiata di turno, rimango senza il mio caffè davanti a un'inattesa notizia sussurratagli nell'orecchio da un soldato di guardia.
Si allontana in fretta, dimenticandosi di me; non so perché, ma mi alzo anch'io e lo seguo, come se fossi legata a lui da una corda annodata per gioco. Lui non si accorge e non si gira; ho il fiatone, non è facile stargli dietro e per un attimo quasi desidero che la corda ci sia davvero, per trascinarmi al passo delle sue gambe lunghe e allenate.
Poi finalmente si ferma e posso tirare il fiato.
Devo piantarla lì di fumare, penso, e cerco un posto per sedermi, ma gli spari mi fanno saltare di nuovo su.
Raggiungo il mio generale: il bersaglio del suo piombo impazzito è un giovane soldato dalla pelle olivastra sdraiato a faccia in giù sulla sabbia.
La rabbia di Freddi alimenta se stessa, a ogni colpo segue uno più forte, come in un crescendo di una sinfonia maledetta che sai già che finirà con un improvviso silenzio. Il generale continua a sparargli con accanita forza, ma stranamente quel corpo straziato continua a muoversi, come se la sua anima fosse rimasta intrappolata, nella confusione di quella pioggia di pallottole, e non riuscisse a trovare il punto giusto da dove uscire.
"Ancora ti muovi, schifoso?", grida Freddi, picchiando con la punta dello stivale nel fianco dell'uomo. Ma forse lui nemmeno si accorge più, scaraventato chissà dove, mentre il suo corpo è lì, steso nella polvere, a muoversi senza di lui, nelle convulsioni di quei lunghi minuti.

Le sue mani sono immobili con i palmi all'ingiù, come se improvvisamente cielo e terra si fossero capovolti e lui temesse di cadere. D'un tratto penso alle zampe della rana e alla facilità con cui la carne si mescola alla terra, sempre e ovunque.
L'uomo non si muove più. Giusto in tempo per non sprecare un altro caricatore, penso. Freddi mi ha visto, ma mi volta le spalle e si incammina verso la tenda. Se fa in fretta, troverà il suo caffè ancora caldo.
Davanti alla tazza di alluminio, ancora fumante, mi accorgo che il mio generale si aspetta parole buone ed esige la mia ammirazione, come anni fa Matteo pretendeva la torta alle mandorle. Mi guarda con un sorriso nuovo, illuminato dall'espressione vincente dei suoi occhi, e in quella carica di adrenalina che li fa brillare come di luce propria, io ci vedo le fiamme dell'inferno.
E' pronto a rispondere alle mie domande fatte su misura, che contengono già le risposte giuste come cioccolatini pre-incartati.
"Lei è capace di fare una rana, generale?" gli chiedo, senza aspettare risposta.
Poi mi alzo e lo lascio lì, con il suo caffè che sa di asfalto rovente, la sua smania da eroe e la sua armatura di carta pesta.

Chi ha detto che l'inviato di guerra è uno spettatore innocente? Chi l'ha detto?
Non scriverò questo articolo; questa lode spiccia all'eroe nostrano, queste parole che mi si appiccicano in bocca e sulle dita come una gomma americana masticata troppo a lungo. Non lo farò, nonna.

Mi chiedo se sognerò le rane stanotte, o gli stivali rabbiosi del generale, inzuppati di fango e sangue, o i giornali freschi di stampa appesi su interminabili fili sopra il fronte, come lenzuola stese ad asciugare. Sono stanca e i pensieri mi scivolano sotto le coperte come l'inchiostro in mezzo ai fogli piegati dei miei appunti.
Ho sonno. Chissà mai che l'anima di quel ragazzo non verrà a posarsi tra le mie braccia stanotte?
Dopo tutto, sono l'unica donna al campo…






illustrazione della pittrice Roberta Sibio




COME UNA PIZZA A DOMICILIO
brano di prosa non narrativa sul matrimonio



Ce l'hai fatta, ragazza. Il tuo sogno si è avverato, il grande evento è già successo. Ora è tutto come dovrebbe essere. Sei una donna sposata. Felice. Felice?
Che cosa, di preciso, dovrebbe rendere le tue ore più liete e le tue giornate più luminose? Una casa tutta in ordine, nido perfetto per due giovani sposi? Le lenzuola bianche ricamate con le vostre iniziali? I bicchieri di cristallo? I piatti di porcellana dipinti a mano? Gli elettrodomestici di marca? I mobili stile arte povera? La cucina Scavolini? La televisione a cristalli liquidi e un divano per addormentarsi davanti? Una perfetta lista nozze di oggetti e sentimenti marchio registrato?
Già, perché da quando hai firmato davanti al sindaco e detto sì al prete, ogni carezza è diventata lecita e la tua verginità non era più da custodire e difendere come un bene prezioso.
Ma che strano mondo questo, che prima è tutto no poi di colpo diventa tutto sì, basta una firma sul contratto giusto e si abbassano le barriere del giudizio e del tuo corpo. Com'è difficile restare in equilibrio sul quest'altalena di cose da fare e da non fare.
La tua prima notte è appena passata e già ti guardano tutti in un modo diverso. Ma nessuno saprà mai cos'hai provato, come ti sei sentita quella prima volta decisa altrove, in cui di colpo il tuo nuovo statuto ti chiedeva di abbandonare il pudore che ti avevano incollato addosso per due decenni.


Ora spogliati, non devi più vergognarti, come se la vergogna fosse una crema a lunga conservazione da spalmare sulla pelle e sul cuore, vent'anni e poi scade, non puoi più usarla.
E come spiegare a tutto quel mondo in festa per te che appena tolto l'abito che ti aveva stretto la vita per tutto il giorno, non c'era desiderio sulla tua pelle, né voglia di lui, ma solo il tuo corpo imbarazzato e stanco, che indossava la stessa vergogna di prima, lo stesso pudore ora diventato ingombrante. I piedi ti facevano male e il trucco si era sbavato; la testa ti girava di musica e champagne e avevi solo un infinito bisogno di restare sola, di abbandonarti a quella stanchezza sconosciuta e di non dover essere bella e attraente a tutti i costi. Volevi chiudere gli occhi su quel trambusto e dormire un sonno lungo e riposante che ti desse la forza di risvegliarti in un giorno nuovo di una vita diversa.
E non lo dirai a nessuno, nemmeno a te stessa, che nessuna notte di folle amore si è consumata tra le lenzuola bianche pronte a essere macchiate.
Lui era stanco, ma aveva un impegno da mantenere. Tu eri stanca, ma avevi già detto di sì. E allora lascia correre, non farci caso, anche se ti viene da piangere e non sai dove mettere le mani, e non sai dove mettere tutto il tuo corpo confuso, apri le gambe e lascialo passare. Dopo tutto lui ha il permesso di tutti, Dio compreso, di darti l'amore senza darti la colpa.
Fai piano, uomo, non sono un giocattolo d'amore, provo dolore e provo tristezza e mi sento così sola dentro al tuo abbraccio stanotte.

E allora ti chiedi che senso ha questa legge degli uomini se la tua anima resta indietro come un corridore squalificato?


Ma per fortuna l'alba scende anche sulle notti insonni, e il mattino arriva anche dopo sette ore gravide di certezze sbriciolate e incomprensioni.
E allora alzati e tira le tende, fai entrare un po' di luce su questa vita e sul tuo novello corpo di donna. Lascia indietro la notte, avvolgila nel mucchio di lenzuola macchiate, insieme al tuo sudore, ai tuoi avanzi di trucco e alle tue paure, poi metti tutto nella lavatrice millequattrocento giri al minuto doppia centrifuga con candeggio incorporato e asciugatrice automatica, seleziona un programma di sporco ostinato e schiaccia il pulsante verde.
Poi siediti e respira quest'aria che sa di vernice fresca e finiture di pregio. Così, ora stai meglio, i tuoi pensieri nella lavatrice che va, un caffè dal gusto metallico nella caffettiera nuova e una giornata tutta intera da affrontare.
Il tuo domani è arrivato puntuale come una pizza a domicilio.
Era quello che volevi, no?
















LUNA DONNA