EZIANA BABBORE
(Pescara,1973)
Scrivo del piccolo mondo che ci fa certezza
viva da molti anni,ma non ho mai dato visibilità
al mio tenace randagismo nell'esistere quotidiano.
Questa potrebbe essere una prima e preziosa
occasione.
La maturità classica mi ha iniziata all'assoluto
e scrivere è un modo di sfamarmi dalle sue
carni buie. E' la mancanza a farmi proposta
di vita, la mancanza come operosa incompiutezza,
la mancanza che non spreca ma accetta che
ogni cosa muoia nell'istante in cui diventa
perfetta. E' solo nella mancanza che agisco
e penso come fatto inevitabile, e scrivere
mi rende anche possibile come esperienza
per l'altro.
L'AQUILONE
Vi racconto una storia iniziata nel sole,nei
giochi,nel bene di ogni speranza che si fa
parte dell'anima capricciosa e triste. Vi
racconto la storia di un uomo che,col suo
aquilone,"si confessò burlando"
per le strade della città.
Era il primo gennaio,tutto il nuovo anno
non più che in una misera semenza di ore,dove
anch'io duravo poca e grata,come un granello
di senapa da provare nella terra. Guardavo
il mattino allargarsi tra muri e finestre,quando
la luce risana le cose,nell'inclinazione
che,dopo i sogni,ci avvera tutti. Avevo gli
occhi piegati sul mondo,con tante vite ancora
nei letti e tante voci nel disordine dei
corpi. Mi tenevo all'orizzonte,alla lunghezza
gialla del prevedibile raccolto dentro un
unico e lento risveglio,ed ero serena. Poi,dall'angolo
in basso della finestra,vidi volare un nastro
rosso,verde e bianco,una fragile struttura
di carta e un nome. Sotto l'aquilone,le dita
di un pittore che conosco,la sua schiena
curva,lo scherzo di una malattia che inventa
storie da tacare. Camminava al centro della
strada deserta,contrastato appena dalla brezza
che,sollevando quel nome colorato e prezioso,lo
rendeva felice. Il nome di suo figlio. Vedevo
i fili torcersi sul capo e le mani distanziarli
pazientemente,vedevo un professore di ottant'anni
alzare pugni alla stupidità,capire la meraviglia
dentro il vuoto e spartire con quel vuoto
tutto il bene ed il bello che c'è. Vedevo
un artista perdersi in un calmo disimpegno,i
pennelli,i quadri,le figure accostarsi al
passato,appartenere ad un minuto fa,all'istante
prima di uscire col suo aquilone sulla testa,esile
e vecchio,nel silenzio di una città ancora
assopita. Dell'arte ha fatto filamenti di
colori e geometrie,pianti di donne sacre,primavere
spente nella terra. D'arte ha rivestito ogni
affetto,ogni sguardo,i sassi del giardino,le
foglie nell'acqua. Avrebbe voluto anche il
mio volto,lo desiderava tanto in quella composta
solitudine scelta per durare. Spesso,al mattino
presto,dipingeva piccole cose davanti casa,
prove di un'esistenza veloce, il malato del
tempo che ci fa fiato intero e segno. Ma
quel giorno eravamo solo noi due a render
certo l'invisibile, a dire al mondo di non
preoccuparsi, che quel volo di carta avrebbe
liberato tutti dallo zero metafisico di ogni
apparenza. Lo seguii finché non lo vidi sparire
dientro un muro, con l'aquilone alto lungo
la strada. Ancora il nome del figlio tra
i rami, ancora il suo amare folle di padre.
Sempre e solo noi due, in quella prima mattina
del nuovo anno.
LUNA DONNA |