MAROSIA CASTALDI: napoletana, vive a Milano. Ha studiato filosofia a Napoli e arte a Brera. Ha pubblicato i racconti Abbastanza prossimo (Tam Tam 1986), Casa idiota (Tringale 1990), Piccoli paesaggi (Anterem 1993); i romanzi La montagna (Campanotto 1991), Ritratto di Dora (Loggia de' Lanzi 1994), Fermata Km. 501 (Tranchida 1997), Per quante vite (Feltrinelli 1999), Che chiamiamo anima (Feltrinelli 2002), Dava fine alla tremenda notte (Feltrinelli 2004); il saggio La casa del Caos (in "Punteggiature", Holden Maps, BUR 2001); le prose In mare aperto (Portofranco 2001). Collabora con "Il Verri", storica rivista letteraria italiana.

Marosia Castaldi: "A vivere s'impara" - il blog sul sito Giangiacomo Feltrinelli Editore

 

La Montagna
(Campanotto, 1991)







Ritratto di Dora
(Loggia de' Lanzi, 1994)





Per quante vite
di Marosia Castaldi
(Feltrinelli, 1999);
la copertina riproduce
"Senza Titolo" (1984)
scultura in legno e acrilico
realizzata dall'autrice






In mare aperto
di Marosia Castaldi
(Portofranco 2001)





UN SEGMENTO DIVISO ALL'INFINITO


Di Martin Eden, mi è rimasta impressa l'immagine di un uomo che lava e stira camicie da solo; de I Demoni, l'immagine di Lizaveta che si taglia i capelli. Anche una frase può essere immagine: " Nel mezzo del cammin di nostra vita…", "Per trentacinque anni ho pressato la carta stampata", "Nell'apocalisse l'Angelo giura che il tempo non esisterà più". L'immagine ruota intorno a un'enigma, che crea una situazione mentale di attesa, di domanda. A questa domanda rispondo scrivendo. Un giorno mi capitò di vedere seduta in tram, Assunta, la donna che lavava i panni nella nostra casa di bambini. Non la accostai, non mi feci riconoscere. Forse non volevo distruggere l'immagine di Assunta ritta sulla veranda a stendere panni contro i vetri abbagliati dal sole mentre noi piccoli le sgaiattolavamo tra le gonne. O fu lei che si voltò e non mi riconobbe?
Tutto quello che scrivo parte da un'immagine: un paravento altissimo, una strada lunghissima, una montagna, una donna in una stanza, una frase detta da un bambino. Intorno all'immagine, stratificata per motivi del tutto inconsci, comincianoo a snodarsi i fatti. I fatti sono diversi a seconda delle connotazioni particolari dell'immagine. Di che colore è il paravento? La strada è affollata o deserta? Ci sono distributori di benzina, hangar, palazzi, automobili intorno ad essa? O una pianura piatta? O pareti a strapiombo? La donna è seduta? Oppure si aggira freneticamente per la stanza cercando qualcosa che non trova? Come ha pronunciato la frase il bambino? Saltellando o stando fermo? Guardando me o altrove?
La storia cresce insieme al libro che la racconta. Parole e vita trasmigrano continuamente l'una nell'altra. Il libro ha la sua vita che non è la descrizione di una storia o di una vita fuori di sè. I miei personaggi di carta sono personaggi di carne. Non faccio differenza tra la carta e la carne. Sono organismi viventi. Si muovono parlano si agitano entrano escono non si fermano mai. Così, intorno a un'immagine immobile si crea un movimento interminabile che non segue la sequenza lineare del racconto:inizio - corpo - conclusione, perchè mi è sempre sembrato che questa pretesa di consequenzialità temporale fosse basata su una cattiva mimesi della realtà, sull'osservazione del fatto che si nasce - si vive - si muore. La nascita e la morte mi sembrano non iniziare e non concludere nulla. Ogni vita, ogni libro, ogni morte mi sembrano interminabili, perennemente non finiti. Forse per questo Faulkner diceva che ogni libro è un fallimento. Il fatto è che per me il tempo è orizzontale: gli uomini, le donne, le automobili, i bambini , i secchielli, le brocche si spostano orizzontalmente, come se si muovessero stando fermi. Cose animate e inanimate diventano parenti, contigue.
In un universo in espansione di cui è impossibile definire il centro e la periferia, anche il tempo perde il limite, la cornice, la conclusione. Siamo al di là del muro. Il che crea un altro altissimo muro : il completamente aperto coincide con il completamente chiuso. All'interno di questo aperto - chiuso si svolge tutto e , dato che non ci sono più porte da aprire per uscire, il dentro e il fuori, il prima e il dopo, il centro e la cornice, il limite e l'illimitato diventano concetti stravolti. Smettono di essere concetti. Smettono del tutto. Non ci sono più. Per questo metto insieme vivi e morti. Per questo i fatti si ripetono. Non c'è nulla di mistico in questo. Solo il sentire il crollo della misurabilità temporale. In questa dimensione spazio temporale, l'infinitamente piccolo e l'infinitamente grande sono la stessa cosa. In quanto tale il tempo è un eterno presente.
E' impossibile a noi umani non dare un limite, non mettere pareti alla stanza. E' importante sapere che le pareti si spostano in continuazione. Allora bisogna fare come se ci fossero una stanza, una strada, due uomini, un bambino. Tagliare un pezzo dell'enigma e lavorarci su.
Ritorna ora un'immagine dell'adolescenza: una suora nera davanti a una lavagna nera che con un gesso bianco traccia una retta bianca sulla lavagna nera e la spranga con due segmenti verticali. Si volta ci guarda ci dice: "Immaginate di tagliare un segmento all'infinito". Ci stessi male sui tram. Mi rovinavo i pomeriggi. Nessuno ci aveva ancora spiegato che la fisica si basa su ipotesi e la matematica su assiomi indimostrabili. Mi è rimasta quella domanda senza fine: come si fa a dividere un segmento all'infinito? Quella lineetta bianca sbarrata da dividere all'infinito ha sempre avuto per me la stessa imperiosa indecifrabile potenza di ogni immagine che mi sì è presentata dopo: una donna seduta, un uomo che lava, un paravento altissimo, una strada che contiene le vite di tutti i suoi abitanti fino all'ultimo respiro e sembra non finire mai

1999


Il Verri n. 19 maggio 2002
contiene un intervento
di Marosia Castaldi
sulla narrativa


Che chiamiamo anima
di Marosia Castaldi
(Feltrinelli 2002)
Dava fine alla tremenda Notte
di Marosia Castaldi
(Feltrinelli 2004)




(Estratto dal romanzo "Che chiamiamo anima" - capitolo riprodotto per gentile concessione dell'editore e dell'autrice)

CAPITOLO 15


 Giorno del processo – Moreno – Malone – gli altri – il Nord

 

Nella gigantesca Ala Nord cominciava  a fare sempre più freddo come se un grande inverno si stesse avvicinando. Gli uccelli volteggiavano sotto le arcate dei soffitti in mezzo alle vecchie colonne di ferro e alla travature pendenti sbattendo le ali come per difendersi dal gelo. Un vento costante attraversava l’edificio da parte a parte. La gente che ci passava i giorni o le notti era costretta a portarsi dietro  coperte  e maglioni. L’aria era incredibilmente tersa. Malgrado la polvere ferrosa. qui nessuno faceva  fatica  a respirare. L’aria di fuori  rimaneva umida e melmosa. Tutti lì dentro si sentivano come a casa.

 Tutta quella gente con figli o senza figli con un lavoro o senza lavoro sentiva che, attraverso quei mozziconi di parole che dal quaderno erano trasmigrati sull’immenso edificio Nord, la sua vita non stava passando invano. Qualcuno l’aveva fermata su quelle mura  e quelle mura erano diventate sacre. Nessuno avrebbe permesso che la sua scritta, la sua frase, la sua parola venisse cancellata. A questo Moreno non aveva pensato e del resto come si fa a sapere in anticipo tutte le conseguenze delle proprie azioni? Vedeva che la sua opera stava diventando di tutti, che non apparteneva più a lui ma agli altri. Io non sono stato che uno strumento, si diceva  e guardava l’immensa Ala Nord elevarsi discosta dall’accatastarsi informe delle altre ali le une sulle altre.Le ali della Nord puntavano  solitarie verso il cielo, come il viso della sfinge si dirige in eterno verso un impossibile orizzonte.

L’opera gli era sfuggita di mano. “Guarda - diceva  a Doroty Malone - non mi appartiene più. Ne fanno quello che vogliono ma è...mia”.

“Ti eri illuso Moreno. Anch’io mi sono illusa per tanto tempo, ho cercato di frenare biciclette, di trattenere quaderni, di non fare andare in pietra una donna, ho cercato io stessa di non diventare acqua. Devi arrenderti”.

“E’ mia”, insisteva Moreno.

“Ma si, è tua”, lo tranquillizza Malone e gli passava la mano tra i capelli. Non erano mai soli.  Si accampavano la notte nei piani dell’Ala Nord e ci dormivano insieme a bambini, ad amanti, a pochi solitari, ad intere famiglie. C’ era un grande brusìo, un gran bisbigliare. Gridi d’amore  e di rabbia si levavano nell’aria e si confondevano con lo stridìo degli uccelli in alto. Si sentivano sussurri  imprecazioni  urla e voci che cercavano di riportare la calma . Qualcuno aggrediva perché proprio quella notte gli era parso che parte della sua scritta fosse  stata cancellata e andava a cercare il colpevole. Ci  si dava gomitate per entrarci tutti, in mezzo agli spifferi e al vento che faceva più tese e austere le ali degli angeli neri che si aggiravano su per le volte.

Malone rimaneva minuti interi  a contemplare quegli uccelli mentre con le dita continuava ad andare su e giù tra i capelli di Antonio Moreno. Lui le prendeva la mano e la baciava. Chissà quanto hanno sofferto queste mani, le diceva  e Malone sorrideva. Come quelle di tutti, diceva,  e sono state anche felici quando portavo mio figlio in braccio quando seguivo con le dita la storia che leggevamo insieme quando gli tenevo il manubrio della bicicletta…

...rossa ,diceva allora Moreno che aveva sempre con sé in mezzo al mucchio delle loro coperte lo zainetto nel quale da un tempo che non contava più conservava il vestito insanguinato di Doroty Malone. Non avrebbe quello straccio rinsecchito incrostato di sangue riportato del tutto  la memoria  a Doroty Malone? Non dovrei sbatterglielo sotto gli occhi  e ridarle tutti i monconi di memoria che non ha ancora trovato? perché in quei monconi c’era anche lui, oltre al figlio morto. Per lei Timoty continuava a vivere e perché lui, Moreno, doveva essere morto dentro la sua testa? Era sicuro che vedendo il vestito, lei avrebbe ricordato tutto: i motel e il bambino nella pozza di sangue e le sue braccia che la stringevano nelle  squallide stanze dei motel. Ma non lo fece.  Il momento non era mai quello giusto o c’era troppa gente e, come levandosi una nube dalla fronte, metteva da parte lo zainetto in cui teneva un pantalone di ricambio un maglione uno spazzolino da denti un sapone, come se dovesse partire da un momento all’altro. E il vestito insanguinato di Doroty Malone.

Sotto le coperte, come tutti facevano con tutti nell’imensa Ala Nord: le madri con i figli, gli amanti con gli amanti, i figli con i padri, la carezzava e la teneva stretta. La sua bocca percorreva tutto il  suo corpo. Lei rispondeva con  slancio a quelle braccia forti amorose. Cantavano le alte pareti dell’Ala Nord.

“Un tempio dell’amore - sghignazzava Fermhatt che spiava  il grande edificio trasformarsi giorno dopo giorno, notte dopo notte, in  un immenso bivacco - la gente preferisce star lì piuttosto che nelle case riscaldate col bagno i termosifoni il frigorifero la televisione dove non entra il vento e gli uccelli non ti cagano addosso”. Non che lui ci fosse mai entrato nella torre, ma sapeva tutto attraverso Amincov che nella torre ci entrava e ci bivaccava anche lui e non solo per obbedire  al comando di Fermhatt di riferirgli quello che succedeva là dentro: il prezzo da pagare  per evitare una denuncia . Ci stava bene anche lui in quella casa scritta che era così simile  a quello che faceva ogni giorno coi corpi e col suo stesso corpo perché anche lui, Amincov,  innestando il dolore  e il piacere su se stesso, si era tatuato un ‘aquila all’interno del polso: il punto più delicato . Aveva rischiato di tagliarsi le vene, di morire e proprio questo gli aveva dato piacere. Se lo portava dentro quella contiguità con la morte che teneva stigmatizzata sul corpo. Era un’alleanza. Quando verrai non mi sarai del tutto sconosciuta, le diceva Amincov  come se avesse danzato con la morte  e stretto un patto a cui lei si sarebbe inchinata e si sarebbe fermata un attimo per lui, per aspettare il suo tempo di morire. Così avrebbe fatto la sua morte, pensava Amincov e questo gli sembrava che stessero facendo tutti quelli che bivaccavano là dentro: stavano cercando di venire  a patti con la morte attraverso quei segni impressi  sui muri.

“Per sempre...-  si diceva Amincov quando era scoraggiato - il corpo si putreferà  e le mura saranno corrose dal tempo ne avremo solo un vantaggio: che ci saremo allenati che avremo meno paura della morte...” In quei momenti gli sembrava tutto inutile: lo stare lì, il guardare gli altri, il suo tatuaggio sul polso, il dolore  e il piacere che ne aveva provato e quelle neri ali volteggianti sul soffitto non erano che un oscura minaccia. “Mai verremo  a patti con la morte, niente può sconfiggere la morte”. E chinava la  testa dimenticandosi di Fermhatt  e di tutti quelli che vaeva intorno. Tirava fuori un sedativo e aspettava che la pace chimica desse requie al suo cervello.

 Cipriano si era fatto dare dalla tenutaria del bordello una ragazzina migherlina che veniva dal Caucaso. Si chiamava Alynka Aral. Veniva da quel paese dove il mare se n’era andato. Era esile minuta impacciata. Nessuno l’avrebbe voluta tranne Nick Cipriano che si sarebbe accontentato anche di uno scarafaggio pur di far ingelosire Doroty Malone. Ma la ragazzina lo aveva scambiato per un padre. Forse perché era cresciuta nell’estrema miseria e già aveva l’abitudine di fare pompini al suo vero padre  e di carezzargli la schiena e di coricarsi con lui e di averne figli magari. Ma figli Cipriano non ne avrebbe mai voluti.

Sotto le coperte, sotto le arcate  sfalcate dagli uccelli, le mani della bambina erano così dolci che Cipriano cominciò ad avere due amori e  a crescere. Lui, che era sempre ricorso a Doroty come un bambino vergognoso, ora era un padre protettivo, un  padre che fa fare schifezze alla sua bambina. Ma la bambina non è mia figlia, si diceva in certi momenti Nick sbigottito di quella manina magra attorcigliata intorno al suo pene perennemente floscio. Io non la violento questa bambina e le chiese quanti anni hai? Sedici, disse la bambina. Allora non sei una bambina. No, non più, non lo sono mai stata. Allora Cipriano rivoltava le parti ed era lui che carezzava quel corpo magro lo scaldava e  cominciò a comprale formaggio dolci cioccolattini per farla ingrassare un po'. Passò dall’altra parte della barricata: non era più un figlio a vita. Altrimenti perché il suo membro sarebbe stato sempre floscio se non avesse avuto una  madre tirannica? Ma lui non aveva mai accusato sua madre . Di sua madre ricordava con tale dolcezza gli stufati i pasticci di melenzane contro le ubriacature del padre che non avrebbe mai voluto nemmeno pensare che quei pasticci quegli arrosti quegli stufati quei maccheroni lo avevano fatto crescere come una palla gonfiata con un pisello piccolo piccolo incapace di entrare nel corpo di una donna. Gli bastava essere padre ora. Si sentiva finalmente orfano e questo lo poneva più vicino alla morte perché non aveva più nessuno alle spalle  e più vicino alla vita perché aveva qualcuno a cui provvedere. Carezzava il piccolo corpo ed era lui che, senza penetrarla nemmeno con le dita, lisciava le piccole labbra tra le gambe della ragazza perché almeno lei provasse piacere.

Tutti lì dentro avevano un conto in sospeso con la morte e il fatto di esserci così misteriosamente vicini, perché li dentro c’era un pezzetto anche per loro  di immortalità, stava facendo crollare mura  e mura dell’anima delle viscere del sangue del tempo.

Dopo notti e notti, Cipriano scoprì che  la amava ma non era geloso di Doroty Malone. Mostrava la sua madonnina  e ci scherzava insieme alla ragazzina che  si divertiva moltissimo.

Cadevano gli anni, la memoria. I corpi si avvicinavano ai corpi quasi fino a fondersi nel caldo cupo che veniva da tanti aliti notturni, veleggiando sul suolo sudicio cosparso di polvere ferrosa mozziconi di sigarette avanzi di cibo tubi di ferro scambi arruginiti  valvole fulminate lattine vuote  pale ed  artigli.

KUC KUC KUC… si levava il grido dell’aquila come un bagliore di fuoco nella notte dei diluvi

Zelda Banhoff volle anche lei andare lì con la bambina almeno per una notte. Aveva supplicato il marito che, come Fermhatt, si ostinava a non voler entrare nella fredda Ala del Nord. Almeno una notte, aveva supplicato Zelda  e, visto che le suppliche non funzionavano, una  sera aveva sbattuto la porta con coperta golfini cibo e medicine e si era rincantucciata in un angolo con la bambina in braccio.

Vedendola sola con la piccola, Doroty Malone si infilò in fretta la camicia sgusciò fuori dalle coperte ed esclamò Zelda anche tu qui?

“Si”, disse timidamente.

 “E con la bambina?”

 Zelda aprì un fagottino da cui spuntava la faccia della bambina  addormentata. “Sai mio marito non voleva ma ...io ne avevo bisogno e anche lei” disse stringendo più forte la piccola.

“Vi troverete bene” dice Malone e si  siede accanto a loro

“C’è vento qui”, dice Zelda preoccupata “farà male alla bambina …forse non dovevo venire”.

“Non è un vento che fa male. E’ come essere in alta montagna, l’aria è migliore, le farà bene vedrai”.

Come nella solitudine delle alte montagne dove il cielo è troppo vicino per poterlo sfondare  e Dio troppo  lontano per poterlo raggiungere. Come nel freddo del grande Nord dove la luce che staziona in eterno con il buio eterno porta ai confini estremi della vita.

“Se è malata guarirà e se non è malata non si ammalerà” la rassicura Malone e Zelda la guarda dare il pasto alla bambina che sorride contenta. La madre le cambia il pannolino, la imbacucca per la notte e chiacchierando con Malone, finsce per chinare il capo sulla spalla di lei e addormentarsi.

“Ancora un minuto …solo un poco...vengo...” bisbiglia Malone a Moreno che le fa segno di tornare sotto le coperte. Finché anche lui si raniccha sullo zainetto e si addormenta.

Banhoff restò per tutta quella notte  a guardare le grandi ali del Nord svettare verso il cielo chiedendosi cosa ne fosse della moglie e della figlia. Lui come Fermhatt non osava superare quella barriera. Siamo uguali. Io e il mio nemico siamo uguali, si dice e guarda verso la finestra di Fermhatt che si aggira come una belva inferocita per la stanza sudicia illuminata solo dalla lampada da tavolo. Banhoff   si volge verso la finestra della donna in rosso che batte furiosamente sui tasti. Non abbandonò la finestra fino a che gli occhi gli si chiusero mentre senza far rumore Zelda Banhoff con la bambina addormentata in braccio  apre silenziosamente la porta. Gustav non le chiese mai nulla di quella notte nel grande Nord.

Fu allora che tra Banhoff e la moglie si aprì un solco invisibile. Se ne stava  per ore nel bar dell’ Ala H seduto al suo tavolo da solo. Anche Fermahtt se ne stava al suo da solo a meno di non decidere di fare irruzione ai tavoli altrui. Guardavano la vita degli altri passargli sotto gli occhi e loro incapaci di entrarci. Ma almeno lui ha sete di dominio io cos’ho? si chiedeva Banhoff nascondendosi dietro un giornale e un gigantesco boccale di birra. Un solco gli stava spaccando il corpo e  lo seprava dagli altri come una falda apertasi tra terra  e terra dopo un terremoto. Quale ponte gli avrebbe permesso di attraversare la frattura?

 

 L’uomo seduto sul banco degli imputati getta lo sguardo verso il giudice giovane seduto in mezzo al pubblico. Banhoff si chiama, Banhoff, e un giorno  diventeranno amici. Era lui il ponte sopra l’abisso. Banhoff  distoglie lo sguardo come se vedesse qualcosa di insopportabile negli occhi di  Moreno, mentre il giudice sul suo altissimo scranno  diventa sempre più piccolo. Un invisibile. Dopo due giorni di sospensione il processo riprende e sull’altissimo scranno  siede un altro giudice che nemmeno lui  ha avuto il tempo di leggere tutto l’incartamento e come  hanno fatto tutti si  mette a leggere mentre

 

Cipriano con la sua ragazzina e Amincov e Lu Sun ridono e mangiano  seduti a un tavolo. Malone e Moreno  sussurrano seduti a un altro tavolo  e gente di tutti i colori  e le lingue si affestella  intorno ad altri tavoli. Il gestore ha dovuto assumere altro personale. La gente  abbandona le sue case. Preferisce  starsene al bar o nell’Ala Nord. Anche le madri si portano  dietro i bambini.

Almeno speriamo che li abbiano mandati a scuola, gruscisce Fermhatt e cerca disperatamente un orologio che non trova e chiede l’ora a tutti ma tutti scrollano le spalle. Non hanno orologi o sono tutti rotti

“E come fanno queste creature ad andare a scuola se non sapete nemmeno che ora è?”

“Ci vanno, ci vanno - dice tranquilla e maestosa una grande donna nera che si stringe intorno tre marmocchi -  Tranquillo Fermhatt, ci vanno, non ti preoccupare. Imparano  anche qui per strada, però, se lo vuoi sapere”.

“Balle!”, urla Fermhatt. Tutti si voltavano verso di lui e lui, grande come la grande donna nera, giganteggia  sul popolo di  nani ignoranti fetenti pusillamini imbecilli ecco quello che siete non vi rendete conto che vi state distruggendo con le  vostre mani? state riducendo in polvere questa città”. Poi si calma. Si avvicina alla donna nera, accarezza uno dei marmocchi.

“Va bene, va bene, siediti Fermhatt”. Tutto il caldo del grande Sud dava a quella donna il potere di intimidire. Si schiudeva come un gigantesco fiore nero acceso da una fiamma che le attraversa gli occhi e si spande sul velluto della pelle scura. Tutto intorno a lei è buio e ombra . Lei stessa è buio e ombra dentro la quale dimora il fuoco degli occhi gialli abitati dall’abisso dei secoli. Della memoria di animali estinti, di immense pianure punteggiate da alberi radi, dei gridi nella notte  in cui la terra e l’acqua ribollendo davano vita ai continenti.

“Ma tu ce l’hai una famiglia?” sta chiedendo Moreno a Malone seduti a un tavolo appartato. “Non so… l’ho avuta. Avevo un bambino”. “Ed è vivo questo bambino?”. “Me lo vedo  sempre tra i piedi… si chiama Timoty… e poi ho un’amica, Elvira Rose e tu ce l’hai una famiglia?”. “ Ho un padre che non vedo mai, è un vecchio testardo non andiamo d’accordo su  niente, si chiama Santiago, Santiago Moreno. Io non vado da lui e lui non viene da me. Ci rivedermo solo quando uno dei due morirà… e di me? ti ricordi di me? -  incalza Moreno - le  riconosci queste mani che ti fanno impazzire? la ricordi  questa faccia?”. Malone china il capo e non dice niente. Si stringe convulsamente le mani. Eppure lui sa che le sue mani continuano  a vivere nel corpo di Doroty Malone. Quelle mani vivevano nella cattedrale gigantesca che è il corpo di Doroty Malone e lui  vuole esserci dentro come un abitante riconosciuto non come un  ospite occasionale.

Doroty Malone rimane  a fissargli inebetita le mani ogni volta che lui la sottopone a questo interregotario. Lo guarda in faccia, le si storce il viso in una  smorfia, gli stringe convulsamente le mani come per obberdirsi a ricordare poi piega il viso e piange.

“Ma che fa quel dannato? - si chiede Lu Sun che da lontano spia le mosse di  Malone - ora la fa piangere quel disgraziato...certo anch’io le ho tolto il quaderno...perché ci godiamo  a far soffrire quella donna?” Si alza di scatto, va al tavolo dei due e chiede “Hai bisogno di qualcosa Doroty?”

Malone lo guarda con gli occhi rossi  e tumefatti. “...Lu…”. “Si?”.“ Tu sai chi sono io?”. “Si”. “E sai chi era mio figlio?”. “Si”. “E sai niente di una bicicletta rossa?”. “Rossa? Tu hai sbattuto la testa cadendo da una bicicletta rossa”. “Non parlavo di me, ma di mio figlio”. “Ti levi dai piedi ragazzo?- lo strattona Moreno - eravamo noi due che stavamo parlando”. “Questo non è suo territorio...questa donna non le appartiene”.“Lascialo, Moreno...lo conosco da così tanto tempo...è come un figlio”.“Un figlio? - la guarda Lu -  un figlio? e si va a letto con…?” si morde le labbra e torna la tavolo.

“Perché piagnucuolava?”, chiede Amincov.

“Niente, niente”.

“Come niente?”

“E’ che non riesce ancora a ricordare tutto  e questo la fa star male”.

 “A me piacerebbe non ricordare niente - fa Cipriano - non ricordare mia madre  non ricordare le donne tutte le donne - e lancia uno sguardo inutile verso la ragazzetta magra che ride  e mangia furiosamente - …almeno questa l’ho fatta felice”,sospira.

“Stronzate - ghigna Fermahtt - per quello che si può ricordare della vita... e’ una mania questa di tenere tutto assieme con lo sputo con la colla con la memoria coi mattoni coi corpi avvinghiati...se ognuno sapesse stare al posto suo tutto sarebbe più tranquillo ...io sono un tipo tranquillo”. “Tu?”, fa Amincov. “Si io. Ti sorprende? Siete voi che mi fate imbestialire, nessuno sa stare al suo posto”. “E qual’è il nostro posto?”

“Senti Amincov sono stufo di discussioni inutili, tra un po' sarà il momento di agire  e voglio vedere tu allora dove sarai..” Si alza  di scatto si dirige verso un tavolo dove in tutto quel casino è stato sempre seduto tranquillo un uomo con i capelli grigi e la faccia tagliata con la pietra. Davanti non ha niente   altro che un bicchiere d’acqua. “Mi dice che ora è? - lo aggredisce Fermhatt - qui hanno perso tutti gli orologi o sono fermi, vai a capire ma lei sembra uno tranquillo”. La faccia di pietra solleva verso di lui gli occhi azzurri senza fondo e senza espressione. Spalanca la bocca e Fermhatt vede una caverna vuota senza denti  con un lingua rattrappita come un peduncolo. Una voragine mostruosa. L’uomo gli porge il bracccio nudo e continua  a tenere spalancata la bocca senza muovere un muscolo del corpo senza mutare espressione degli occhi. Fermhatt arretra. “Ma che le è successo?”. E ritorna al tavolo.

“Che diavolo ti è venuto in mente di andare da quel disgraziato, Fermhatt?”

“Che ne potevo sapere io?”

“Gli hanno bruciato la lingua in una guerra. Non parla più e non sente il sapore del cibo...non ha la parola e non ha il gusto”.

“Come? - chiede Lu - non sente più il sapore delle cose?”

“Non vedi che ha solo acqua davanti a sé?”

“E come deve essere la vita senza sentire il sapore delle melenzane degli arrosti della frutta matura del vino della pasta di niente di niente?” chiede sgomento Cipriano.

“Una schifezza…per questo se ne sta sempre abbarbicato sull’Ala Nord”

“Per questo ci passa i giorni e le notti. Non può parlare ma almeno lì c’è scritto un pezzo della sua storia”

 “Questo è un posto di pazzi o è un lazzaretto eh? ditemi voi cos’è”, ruggisce Fermhatt  e scola ancora birra.

“Tu, tu lo senti il sapore della birra, Fermhatt ?”

L’uomo dagli occhi azzurri stringe convulsamentte le mani intorno al bicchiere d’acqua, si fa coraggio, si alza e  si avvicina al tavolo. Accenna con la mano  a una sedia accanto a loro.

“Siediti”, dice Lu.

Fermhatt sbatte il pugno sul tavolo. “Io in questo covo di storpi di malati mentali di puzzolenti fetentissimi  straccioni non ci voglio stare”, e si alza facendo cadere rumorosamente la  sedia.

“Devi capirlo -  fa Amincov all’uomo azzurro - non è cattivo...qui nessuno riesce ad essere buono o cattivo fino in fondo...nemmeno Fermhatt”

Moreno distoglie gli occhi da fermhatt e dall’uomo azzurro e li riposa su Doroty Malone.

 “Hai imparato a piangere – le dice, poi pentito dello sforzo disumano che le impone, le stringe teneramente le mani  -...chissà quante cose hanno fatto queste mani. C’è tutta la tua vita in queste mani” e le guarda come se vedesse scorrergli davanti quelle dita strette attorno alla testa del bambino, quelle dita che cercano di imboccare Elvira Rose, quelle dita che gli porgono una chiave inglese sulla soglia di un giadinetto pieno di pitosfori con una fontanella di gesso e dei nani di gesso. “Non voglio stare sulla soglia, Doroty, fammi entrare dentro la tua casa”.

Malone lo guarda. E’ sera. Si lascia portare nell’Ala Nord, si lascia sfilare i vestiti  e vede Moreno che tira fuori dallo zaino delle penne sottilissime. La corica sul dorso e le scrive sul petto

 

come un sigillo imprimimi sul cuore

come uno stigma portami sul braccio

poiché l’amore è indomabile

più che la morte...

 

“Io non ti appartengo. Cancella subito, Moreno”.

“Si cancella, è solo un po'  inchiostro. Ti ho fatto male?”

“No”, sussurra Doroty  e  guarda quei piccolissimi versi scritti in rosso sangue  sul suo  seno. Istintivamente si copre con le mani perché tutti intorno stanno a guardare l’uomo che scrive sul corpo della donna. Moreno stringe forte tra le braccia lo zainetto, come se qualcuno potesse strapparglielo. Il quaderno lei l’aveva lasciato andare  perché seguisse il destino di tutte le cose mortali ma il vestito macchiato del sangue rinsecchito di un bambino quello rimane sigillato  nel suo zaino, pronto a far esplodere in qualsiasi momento la memoria muta di Doroty Malone. Stringe lo zainetto  e allunga le braccia per coprire lei. Guardano gli altri  che li guardano con avida curiosità. Si leva allora sotto le volte vuote del deposito d’acciaio il suono di un sassofono,  come una musica goffa in un parco giochi astratto ed eterno, dove tutti cantano canzoni idiote,  contenti come bambini che  innalzano castelli di sabbia

“Domani partiamo? partiamo. Vero Moreno?”

“Si, se vuoi… ma…dove andiamo?”

“A Nord”.

Malone si alza, si avvicina a Tsu che stanotte non è al lavoro. Ha preferito venirsene con i bambini inisieme agli altri nella grande casa scritta. E’ tutta contenta, scherza con tutti, sembra complice perfino di Lu che qui non porta libri nè quaderni. Mangiano riso  bevono té e ridono. Tsu distribuisce carezze ai piccolini e guarda Lu con aria riconoscente.

“Tsu, domani parto”

“E dove vai?”

“ A Nord”

“Va bene, ma torna Malone”

“ Tsu, lo sai che torno sempre”

Tsu le sorride “Vai, Doroty Malone, ti farà bene un viaggio - e abbassa lo sguardo sui bambini: Non è proprio sicura che non li dimentichi tutti… - Va, va pure” e continua meccanicamente a distribuire cibo.

Malone va a casa  per fare la sua valigia, ma c’è così poco da mettere dentro che finisce subito. Il resto, le ha detto Moreno, te lo darò io, ho un sacco di maglioni e di pantaloni pesanti. Malone resta a fissare il soffitto per tutta la notte.La mattina raggiunge  Moreno. Si allontano silenziosi dall’enorme caseggiato  della Pfeffingerstrasse. Si imbarcano su un aereo diretto a Nord. Dall’alto vedono una terra di alberi e d’acqua tormentata come una lingua geografica. Anche la terra si dilata mostrando le sue crepe. Sbarcano in piccolo aereoporto ed escono su una strada piena di licheni e di fiori viola e blu. Fa freddo. Malone si stringe nei vestiti. Moreno le mette un braccio sulle spalle mentre attraversano le strade di una piccola città. negozi colori supermercati gente e in alto un cielo così pallido.Non c’è più qui il cielo.

Si dirigono verso la periferia in una piccola casa in Herikinkatu. La casa è in un condominio piccolo tutto di cemento tra poche case di legno sopravvissute all’incendio dell’Ottocento che rase al suolo tutta questa città ti rendi conto? Tutta una città distrutta. Le bambole i letti i tavoli le abitudini le panche le stoffe i vestiti negli armadi…tutto divorato dal fuoco, dice Moreno mentre una donna gli porge le chiavi della casa.Qui abbiamo sempre paura del fuoco per questo non costruiamo più case di legno, dice la donna mentre la sua mano lascia quella di Moreno. Poi scompare.

Si trovano di fronte a una porta. Entrano in una casa azzurra. Azzurre le tende le coperte i tappeti azzurre le lenzuola sopra i letti. Le finestre sono circondate dagli alberi che si piegano al vento.

La notte si stendono sotto i piumini; Doroty si avvinghia ad Antonio come se avesse troppo freddo. Lui la scalda la carezza la strofina la penetra: lei lascia fare. Assente. Guarda sempre gli alberi che piegano le cime al vento del nord.

Non c’è il giorno pieno. Non c’è la notte piena. Una striscia di luce perenne staziona sulla linea dell’orizzonte. E’ la terra di confine alla soglia tra il buio e la luce. la perdizione e la salvezza.

Si avviano verso il mare estremo. La macchina corre tra ombre lunghe  e radenti che entrano nell’abitacolo si stringono ai corpi in una morsa poi lasciano la presa si abbandonano dolcemente sui fianchi, sulle mani. In cielo le nuvole vanno e vengono tra riflessi di rame.

Si avviano su uno stretto pontile di ferro e di legno. C’è solo un uomo immobile che  pesca nel mare d’acciao ferroso perennemente increspato. Fu lì tra quelle ombre, nell’acqua fredda tagliata dal vento , che Doroty Malone sentì la polvere del grande Nord. Si stavano allontanando dalla terra conosciuta e tutte quelle casette di legno colorato piene di tende di candele di fiori secchi di bambole non erano che il tentativo estremo di rendere abitabile la terra là dove comincia a non esssere più immaginabile. Là dove termina ogni paesaggio.

Ci sono onde  e onde che vanno verso il richiamo sibilante del Nord, verso il niente polare dove la vita si ghiaccia. E sulle onde Malone vede due figure avvolte in un rogo avviarsi nel ventre squarciato del Nord imprigionate in un’isola di ghiaccio…lascerò la tua nave sul banco di ghiaccio che mi ha portato fin qui e raggiungerò l’estremità settentrionale del globo, drizzerò il mio rogo funebre e ridurrò in cenere questo mio miserabile corpo perché i miei resti non possano illuminare il curioso insensato che avesse in animo di cercare un altro essere come me…morirò non soffrirò più…luce passioni, sensi scompariranno, e allora può darsi che trovi la felicità.

Ripercorsero in silenzio la Maariankatu, la Tullikatu e si avventarono sull’autostrada buia in mezzo ad alberi e casette isolate con le finestre illuminate come lucette sempre accese sul dorso di un natale buio. Sull’orizzonte staziona una linea di luce perenne.

Malone si mise ogni giorno a passeggiare nei dintorni della casa. Attraversava piccole strade e spiava i davanzali  pieni di bamboline fiori secchi piantine candele e provava un senso di calore come quando da bambini si avvicina il natale e il freddo pare che sia sempre fuori perché dentro è caldo. Dentro c’è un fuoco. Dentro c’è qualcuno che ti aspetta. Poi risente le sue mani staccate a forza da altre mani, una voce che la chiama e poi più niente. Un grande freddo le divora l’anima, una fascinazione verso il vuoto, un altro amore per quel paese sporto sull’abisso, popolato di ombre, abitato dal vento.

Si allontanava dalle case e si dirigeva nel bosco tra vialetti di foglie viscide su cui rischiava di cadere. Alzava la testa verso gli aberi, si chinava su un fiumiciattolo che scorre al limitare del bosco e fissa l’acqua e le infinite forme delle cose che si spezzano e si ricostruiscono nel movimento delle piccole onde. La faccia di un bambino dall’acqua le sorride. Si incartapecorisce. Si disfa. Vede il suo viso accanto a quello del bambino. Tende le mani verso il silenzio del bosco.

Comprò ago fili e pezze. Tagliuzzò con le forbici  le pezze e con il filo  cucì la sagoma di un bambinetto. Lo  imbottì di pezza. Non  era più grande di una bambola qualsiasi.  Si portava dietro il bambinetto di pezza nelle passeggiate. Lo portava  a letto, lo  faceva sedere a tavola accanto a loro,  lo imboccava, si abbarbicava a lui durante la notte. Moreno non riusciva più a raggiungerla nella sua tranquilla follìa. “Non è tuo figlio”, urlò un giorno prendendola per le spalle e strappandole il pupazzetto di mano

“No, non è mio figlio. Ridammelo” rispose lei quieta e si mise a cullare il bambinetto di pezza tra le braccia….”Guarda Timoty guarda acqua come si muove…come si muove… guarda… foglie… galleggiano…”

 Fu nel silenzio sibilante del bosco che Timoty Malone morì per l’ultima volta. Ma la madre non se ne accorse subito e continuava a cullare il bambinetto di pezza... “drizzerò la mia nave verso la parte più settentrionale del globo...morirò non soffrirò più

 La madre continuava  a vederlo saltare tra gli alberi e a dirle allora ti racconto una barzelletta?… allora c’erano due vecchietti uno dice all’altro mi dai un fiammifero?… Com’era possibile che quel bambino fosse morto se continuava  a saltare a venire nella sua casa a rimproverarla in continuazione a sorriderele. Non poteva  star lì a saltare  a riempire le sue stanze se era morto

“Sei morto?”, chiedeva al bambinetto di pezza, “Sei morto?”. Fuori della finestra la distesa immensa di alberi e alberi e foglie e foglie piegate dal vento del grande  Nord dirette alla zona di confine dove la vita si ghiaccia.

Una mattina all’alba prese il bambinetto di pezza e si avviò nel boschetto dietro la casa tra le foglie umide e l’immensa solitudine degli alberi. Gli stracciò le braccia… “Ti lascio libero Timoty” mormorò. Accese un fuoco nel cortile su cui si affacciavano altre case e altre finestre e altre storie  e altre vite  e altri madri  e altri figli e altri giorni e altre notti  e   gettò  tra le fiamme le membra scomposte del bambinetto che avvamparono crepitando  e urlavano insieme agli alberi. Poi entrò anche lei nel cerchio di fuoco. Sono un fuoco tutti e due: madre e figlio. Stanno morendo insieme. Si salvano la morte insieme.

Da dietro la finestra Moreno vide i vestiti di Doroty Malone che prendevano fuoco Era in mezzo ai ghiacci sventrati di un oceano ferroso sbattuto da un vento teso  all’estremo confine tra il cielo e la terra dove i meridiani e i paralleli e le opere e i giorni si bruciano, nell‘inferno vuoto che chiamiamo morte.

Si precipitò fuori impazzito, le buttò addosso una coperta per spegnere il fuoco che subito scemò.La riportò a casa che stringeva tra le braccia il nulla. Fu ricoverata in ospedale per qualche giorno. Le ustioni non erano gravi. Guardava  tutto con gli occhi diventati improvvisamente azzurri come un cielo senza fondo.

 Prima di partire, volle fare una piccola montagnetta nel posto in cui per una  eternità aveva bruciato insieme al suo bambino perché ce ne mette di tempo un bambino   per morire. Alle volte non ci riesce per un’eternità


          Anche ora, mentre scrivo, continua a starle intorno. A rimproverare. A sorridere.

         Ad arrampicarsi sulle sue ginocchia. A posare la testa sul suo seno




Punteggiature
(Holden Maps, BUR 2001);
contiene tre interventi di Marosia Castaldi: "Il Punto interrogativo e la casa del Caos", "Virgola debole" e "Il Segno rivoltato"






Scrivere
sul Fronte occidentale

(Feltrinelli, 2002)
Marosia Castaldi è presente con l'intervento "L'insaziabilità"




LUNA DONNA