Sacha
Rosel ha una laurea summa cum laude in Lingue e Letterature Straniere
Europee e una laurea magistrale in Lingue e Civiltà dell’Asia
Orientale, specializzandosi rispettivamente in lingua inglese e in
lingua cinese con due tesi a tematica letteraria di ispirazione
femminista. Oltre ad aver partecipato a numerose antologie collettive
di stampo horror, fantastico e/o noir, ha pubblicato una raccolta di
poesie, Carne e Colore (Noubs, 2008), un romanzo horror di ispirazione
cinese, Fiori nell’ombra (Demian, 2012) e un romanzo fantascientifico,
La foresta delle idee (Demian, 2016), di cui è stato rieditato da poco
un estratto, il racconto lungo Pandora, Ricordanza (Delos Digital,
2024). Ha inoltre all’attivo un romanzo in inglese, My heart is The
Tempest (Vraeyda, 2021), il primo di una trilogia dark fantasy ispirata
a La Tempesta di Shakespeare. Ha tradotto diversi romanzi dall’inglese
all’italiano, fra i quali la trilogia Warcraft - la guerra degli
antichi di Richard Knaak. Collabora con diverse riviste e portali quali
Thriller Magazine.it (thrillermagazine.it), Libro Guerriero (libroguerriero) e Leggere Donna (leggeredonna.it). Il suo sito personale, prevalentemente in inglese, è lunadonna.net, comprendente anche una parte italiana che ospita contributi di artiste donne. Ha inoltre un blog personale in inglese (sacharosel.substack), dove scrive le sue impressioni sulla scrittura e recensioni di libri.
"Fiori nell'ombra", Demian 2012. Il romanzo d'esordio di Sacha Rosel. |
"L'oscura malinconia dei
sensi", Demian 2011. Contiene il racconto "City of Loss". |
Il volume "Onda d'abisso". L'orecchio di Van Gogh, 2010 Contiene il racconto "Dal mare venne il grande dio" firmato Mauro Smocovich e Sacha Rosel |
"Bloody Hell", Demian 2009. Contiene il racconto d'ispirazione cinese "Occhio rosso" |
"Borsalino un diavolo per
cappello" Robin, 2007 Contiene il racconto "Le Chapeau du Désir" |
"Amiche. Parole e immagini" Le Onde Edizioni, 2005 Contiene estratti dal romanzo "Parolaria" |
"Amiche. Luci e ombre di un sentimento" Erga Edizioni, 2001 Contiene il racconto "La visita" |
Voglio una prosa che sia metamorfosi continua,
un incantesimo di preghiera che arrivi ad
annullare il bianco confondendosi con esso,
nel vivo dell'inchiostro che è sangue mestruale,
e zampilla per far riemergere l'inespresso,
il mare dentro di noi, l'illimitata bellezza
del canto che non ha confini di trama, forma,
lunghezza o brevità.
CLARICE, CLARISSIMA
“Perché io? Perché questo mondo?”
Clarice amava interrompere le spiegazioni
del professor Jubílo Moraes da Silva con
domande apparentemente impertinenti ma necessarie
come l’aria. Non passava giornata in cui
l’uomo non si trovasse alle prese con quella
bambina piena di parole solide, che raramente
altre persone esprimevano ad alta voce. All’improvviso,
nel corso di un discorso, il professore avvertiva
la giovane voce avanzare dal fondo alla stanza
e si girava a guardarla: boccoli biondi decisi
su un volto aperto e incandescente. Aveva
solo dieci anni, ma il suo sguardo e la sua
bellezza erano già impossibili da sostenere.
Dove l’avrebbero portata le redini della
vita se le risposte a tutti quei pesanti
quesiti si fossero rivelate ingiuste o in
qualche modo non veritiere?
Ecco, devo averlo messo in imbarazzo un’altra
volta, si disse Clarice osservando l’accartocciarsi
stanco delle pieghe negli occhi dell’uomo,
umidi come morbidi scarafaggi. Adesso dirà
qualcosa di stupido per farmi stare buona.
Non svelerà quello che il mondo è realmente.
Crede che io non lo capisca.
“Perché è stato Dio a volerlo,” rispose il
professor Jubílo sperando di interrompere
la sua curiosità con una frase semplice e
inconfutabile. Ma Clarice non voleva in alcun
modo arrendersi al sorriso compiacente di
quell’uomo, né credeva che Dio avesse scelto
di creare il mondo solo per un capriccio
di volontà.
“Dio è un’entità onnisciente, giusto? Quindi
tutto si genera in lui spontaneamente, senza
bisogno dell’ausilio della volontà.”
Non aveva intenzione di contraddirlo; voleva
soltanto che lui e tutti gli altri adulti
osassero penetrare la magia delle parole.
Quanti libri aveva visto nella biblioteca
del padre, come misteriosi e nuovi alberi
cresciuti dal legno degli scaffali: perché
nessun essere umano sapeva eguagliare la
certezza immediata che quegli oggetti rappresentavano,
calati direttamente dal volto di Dio sulla
terra? Perché nessuno usava le parole come
fiori o gioielli, incastonandole nel vento
delle tante conversazioni noiose che le passavano
accanto senza mai toccarla? La bellezza di
tutti quei libri restava per lei un enigma
che la saziava senza placare la sua sete,
spingendola anzi ad eguagliare quel dolce
mistero diventandone parte, lei stessa un
maestoso enigma opposto alla stupidità del
mondo. Eccola, dunque, fissare il volto del
professore, issandosi fiera come un cavallo
in segno di sfida come dicesse: “vediamo
chi dei due divorerà l’altro”.
Ma il professore non poteva decifrare la
sfinge Clarice. Era convinto che nessuno
sarebbe mai riuscito a svelarne il mistero
più vero, per cui quando il suono della campanella
giunse a liberare l’aula, si lasciò andare
al silenzio: una tregua sarebbe servita per
placare il pulsare aperto di Clarice dentro
la vita. O forse sarebbe servita a lui, non
lo sapeva con esattezza. La guardò ancora
un momento allontanarsi come evaporando nell’aria
e nei contorni della sua figura gli sembrò
di indovinare la donna che già era: elegante,
impenetrabile, potenzialmente violenta. Clarice.
Con quale nitidezza tutta la sua trascendente
animalità sbocciava in ogni atto e pensiero
che regalava a se stessa e agli altri. Jubílo
Moraes da Silva non volle chiedersi se un
giorno la vita gli avrebbe concesso di leggere
sulla tomba della bambina il nome segreto,
perché in cuor suo ne aveva già trovato uno
che riteneva le calzasse a pennello, benché
non avesse nulla di ebraico: Clarissima.
La solita, furiosa gaiezza accompagnò l’uscita
da scuola di Clarice insieme all’inseparabile
Leopoldo Nachbin: l’una a braccetto dell’altro
s’incamminarono su per l’erta strada improvvisando
un nuovo gergo matematico con cui non farsi
capire dagli altri. Ridendo di gusto, Clarice
tornò a pensare a Dio. In che modo riusciva
a creare spontaneamente cose come gli alberi,
i numeri o i libri? Forse il mondo aveva
un ché di magico e di perfetto di cui solo
Dio poteva conoscere il segreto. Ma se lei
era parte di quello stesso mondo che Dio
aveva creato in quanto sua emanazione, allora
forse poteva diventare partecipe di quel
segreto, solo che non sapeva ancora da quale
porta accedervi. La magia, probabilmente.
Solo quella poteva competere con Dio e con
le sue intenzioni. Solo la magia poteva riportare
l’allegria negli occhi di sua madre.
Dopo aver preso commiato da Leopoldo e rubata
una rosa nel giardino all’angolo, Clarice
corse dritta verso il portico, dove il padre
Pinkas sfogliava un grande volume. Proprio
quello che le serviva. Il padre non le avrebbe
mai mentito.
“Papà,” disse la bambina, “come fanno i libri
a crescere spontaneamente nelle mani di qualcuno?
È Dio a portarli qui sulla terra?”
Pinkas sollevò lo sguardo dal libro, fissò
la figlia con occhi indulgenti e rispose:
“I libri non nascono spontaneamente, Clarice.
C’è qualcuno che li scrive e li progetta
fino a renderli quello che sono. Ogni libro
è scritto dalle mani di una persona diversa
ed è frutto dei pensieri di quella persona.
Dio non ha bisogno di interferire con i passatempi
delle sue creature per riconoscersi in ciò
che esse fanno.”
Clarice cercò di assorbire dentro di sé come
vitale rugiada quel che il padre le aveva
appena detto. Come avrebbe voluto sentire
la verità di quella scoperta in maniera immediata
e senza sforzare il cervello. Avrebbe dato
qualsiasi cosa per trasformarsi in un fiore
o in una qualsiasi creatura che accedesse
alla verità delle cose senza pensare. Quella
era la scoperta più sconvolgente che avesse
mai fatto, talmente forte da toglierle il
respiro. Allora le parole nascono direttamente
dal corpo di qualcuno, pensò e quel pensiero
non riusciva a tenere fermo il pulsare di
ogni sua fibra. Senza esprimere nulla ad
alta voce scappò dentro casa, per andare
incontro alla biblioteca personale di Pinkas.
Preso un volume a caso, Clarice lesse attentamente
i segni che andavano a creare i suoni misteriosi
di nome, cognome e titolo – “Gustav Flaubert
Madame Bovary” - e si disse: come si può
lasciar fuoriuscire tutte queste parole dal
proprio corpo? Un libro diventa forse un
prolungamento del proprio essere? Immaginava
questo signore, Gustav Flaubert, come un
enorme grassone che svuotasse il suo essere
nella scrittura, dimagrendo così a vista
d’occhio riversando cervello e nervi su carta
fino all’ultima goccia. Ma poi, cosa sarebbe
rimasto di questo Flaubert nella vita di
tutti i giorni se avesse continuato ad assecondare
quella cura dimagrante?
Il rumore di passi strascicati e disillusi
che seguì all’esamina del volume le fece
capire che il padre era entrato in casa.
Voleva chiedergli nuovamente spiegazioni,
ma senza sembrare una sciocca. Non aveva
mai immaginato che dietro i libri si nascondesse
una simile verità. Cos’altro le nascondeva
il mondo?
Con le mani ancora intente ad accarezzare
l’intarsio delle lettere sulla copertina
chiese infine timidamente:
“Ma questi signori che riversano le idee
nei libri lo fanno per dimagrire? E come
fanno a recuperare i pensieri una volta fatti
uscire dal cervello?”
“Scrivere non è una cura dimagrante, Clarice,
né un modo per perdere qualcosa di sé. La
persona che scrive non scompare nelle sue
pagine né si riversa totalmente in esse.
Effettua una sorta di magia, un gioco di
prestigio, creando un intero universo dal
nulla.”
Gli occhi di Clarice si illuminarono di luce
nuova. “Allora anch’io posso creare il mondo
dal nulla? Inventare parole mai udite prima
solo per magia?”
Pinkas la vide aggrapparsi febbrile al libro
di Flaubert come se fosse un trofeo venuto
dal mondo oltre le galassie, un mondo che
lei avrebbe senza dubbio raggiunto una volta
imparato a tenere a freno l’intelligenza
con la disciplina. Non esitò a risponderle
con affetto:
“Certo. Puoi scrivere tutto quello che vuoi.”
Raggiante e quasi fuori di sé dalla gioia,
la piccola Clarice si lanciò allora verso
la sala da pranzo, dove l’imponente figura
di Mania, sua madre, se ne stava immobile
e incollata alla finestra ad accogliere l’arrivo
delle figlie nella sua sedia a rotelle. Se
scrivere è una magia, pensò Clarice trionfante,
allora può anche trasformare la mamma e farla
tornare a camminare. Ma questo non l’avrebbe
detto a nessuno: creare magie sarebbe stato
il suo segreto, un segreto da condividere
solo con la mamma e di tanto in tanto anche
con il papà. Guardò gli occhi della madre,
bianchi e serrati come dei tristi gigli,
e le sembrò di ricevere la sua approvazione.
Così cominciò a mormorare delle parole nuove.
Non sapeva bene da dove cominciare né che
suoni usare esattamente, e al principio soltanto
dei versi oscuri si affacciarono alla sua
bocca: malepetl jussifull, coricolibuffo
amarilligut stolezy anirov. Poi il gusto
recondito del raccontare prese il sopravvento
e dal suo fiato uscirono una serie di personaggi,
per lo più animali come conigli pensanti
o tigri dal corpo di cervo, tutti alle prese
con il segreto potere della natura e della
sua mutevolezza. Tutto muta, pensava Clarice
mimando i suoi animali immaginari come un’acrobata
davanti al pubblico impietrito che la madre
rappresentava, perché il suo corpo e la sua
voce non dovrebbero trasformarsi in qualcosa
di diverso?
Così continuò per tanti mesi. Clarice inventava
mondi sempre nuovi per domare la sorte e
la vita; a volte era nel silenzio della madre,
nell’immobilità dei suoi arti, che la bambina
trovava l’essenza della parola, la verità
indescrivibile che risultava soltanto nel
dire: io sono. Dio-Natura si muoveva dentro
quelle storie come una sostanza in continua
transizione. Il silenzio domava i leoni delle
parole, in modo da non farla perdere dentro
di esse. Mania era in grado di capire tutto
questo? Clarice non riusciva a chiederselo.
Per lei l’unica cosa importante era raccontare
e insieme respirare il silenzio che avvolgeva
la madre, affinché la magia si creasse ancora
più forte.
Ma un giorno, tornata a casa con l’ennesima
rosa rubata, Clarice non trovò più la mamma
incollata alla finestra. Al suo posto, Tania
ed Elisa dritte come fusi le dissero che
Mania era entrata nella magia dell’invisibile.
Clarice capiva il significato di quelle parole
e prima ancora che le sorelle le si avvicinassero
per consolarla e consolare se stesse, la
bambina corse via piangendo. Schizzò sull’asfalto,
all’aperto, e corse fino al cimitero.
Le lapidi diseguali e grigie sembravano denti
aguzzi spuntati dalla terra polverosa. In
quel luogo non sembrava esserci spazio per
i gigli nascosti negli occhi della madre.
Un vento forte si alzò dagli alberi, colpendo
il viso di Clarice come una frustata. Le
vecchie lacrime si erano ormai asciugate
e quelle nuove rimasero conficcate in gola.
Guardare quel posto le metteva una strana
pace. I morti erano consapevoli della sua
visita? Quando morirò, pensò stendendosi
sul terreno accanto a una tomba, vorrò dei
gigli bianchi sul mio petto. Io stessa diventerò
un giglio e mi donerò alla terra. Mania,
gridò poi ad alta voce sentendo una strana
rabbia salirle dalle labbra. Posso solo cercare
la parola e il suo segreto nel buio, pensò
poi ricacciando le nuove lacrime indietro,
e abbaiare a Dio il mio furore.
In memoriam Clarice
Lispector
TRAMONTO VERDE
Nella notte in cui Diana violentò Callisto,
non un suono ardiva di essere udito.
Le due ninfe rosse, le chiome fluide disciolte
nella foresta nuda e spettrale illuminavano
la pelle, oscurando la sfera della luna.
L'acqua, una fiammella lenta e regolare,
gocciolava inesorabile dal dito di Callisto,
formando una pellicola opaca e arancione
sulla superficie del lago. La fanciulla era
già gravida, dopo il sospiro solitario del
tempo trascorso.
Sull'erba dorata, Diana osservava il trascorrere
lento e nervoso delle stelle. Una scintilla
dopo l'altra, percepì le prime contrazioni
stordire il corpo di Callisto, e rintoccare
in note di agonia nella sua mente. Il filo
d'arancio cessò di fondersi nell'aria, spezzandosi
in uno squarcio silenzioso che prosciugò
il cielo nello specchio dell'acqua. Subito
il palmo di Diana sfiorò i muti spasmi di
Callisto: un livido invase allora la linea
della sua mano e, grondante di acqua squamosa,
Diana si chinò sul ventre fecondo, in attesa.
Ad un tratto, il lago vivente soffiò una
gemma d'ametista ai piedi di Callisto, e
muovendosi dal proprio abisso come fosse
una freccia d'acqua la colpì, e ne estrasse
una bimba lucida, umida, dalla chioma di
vetro.
La luce verde riflessa nelle ciocche neonate
annunciò il fragore del tramonto alle fanciulle,
ora unite nel suono.
NOON
I FERROVIA
Sono arrivata col treno delle 7. La bocca
secca come carta vetrata, le maniche di camicia
bruciate dal sigaro, e un facchino che divora
pane in ebollizione. Filamentoso, sembra
plastica.
"Lo è, amico", mi fa lui di rimando.
"Dove credi di andare con quella valigia?".
Sollevo il cappello. "Che vuoi dire?".
"Le gite panoramiche sono vietate dopo
le 5".
Accendo un fiammifero. Fizz! Sprizza delirio
da ogni parte. Estraggo un sigaro dal taschino
e lo illumino sotto quelle saette di fuoco.
Guardo i binari. Non è male come posto dove
nascondere i topi.
"Si dà il caso, Fred, che non ho alcuna
intenzione di fare gite panoramiche",
ribatto secca. Le mie pupille vespe cadaveriche
si voltano verso di lui. Il loro laser verde
arriva ai suoi occhi. "Vengo qui per
sterminare i cavalli".
Il suo volto si spegne.
"Che genere di cavalli?".
Cristo, neanche un topo, e questo sapone
idraulico tra le dita... Tiro fuori la mia
pistola dalla giacca, la maneggio accuratamente,
col sigaro in bocca.
"I cavalli non hanno genere. Ne hai
forse uno, tu?", e rialzo lo sguardo.
L'orologio-lava della ferrovia sembra abbrustolito
dal caldo. Fa caldo? Non me n'ero accorta.
Ha una voce gracchiante, l'orologio, peggio
di una ciminiera. Le sue ruote continuano
a girare, a scorrere. Forse quest'imbecille
mi saprà indicare l'accesso al terzo quadrante,
sebbene, a giudicare dall'aria...Sicuramente
non è abituato al caldo di qui. Ha il collo
impiagato di ferri biodegradabili: non può
durare molto in quest'atmosfera.
"Sei in trappola, bello. La freccia
indica che il vento ha chiesto di vederti,
ma non prima che tu abbia convocato le rane
per la trattazione", maligna il tipo
contro di me. Una bolla di paglia attraversa
la mia mano. Sputo a terra.
"Verme. Sai di essere in pericolo qui,
e perciò ti aggrappi alla più piccola possibilità
di fuga. Ma tu non fuggirai: la lepre rossa
ti sta già rosicchiando il polpaccio",
esplodo vendicativa.
"E tu pensi che ti creda?", inveisce
rapido. La sua pelle, tesa e accartocciata
come un mucchio di asciugacapelli sezionati,
vibra. "Ci sono migliaia di condotti,
qui nella ferrovia, più di tremila controllati
dalle rane. La lepre rossa non potrebbe mai
riuscire a passare. Se la sbranerebbero prima",
continua quello.
Getto una risata calcinante. Ho finito il
sigaro e la mosca del sole inizia a disperdersi
nell'odore del vuoto. Mi muovo. Inforco un
sottopassaggio ed entro nel terminale dei
dottori.
II FARINA
Camici ingialliti vagano lungo i cunicoli
del guercio. "Stupide creature! Si credono
ancora umane! Ma la farina che chiedono in
cambio del sangue non gioverà a nulla, e
a nessuno", sentenzio camminando da
una parte e dall'altra.
Braccia fogliacee svengono accanto a me,
i miei passi sempre più lenti, come rallentati
dalla forza dei globi bianchi che scendono
dall'alto, sul muro del reparto. Si direbbe
ossigeno sabbioso, quest'aria. Un dottore
mi piomba addosso da un globo. Infilza la
mia spalla con i suoi canini d'avorio. Cade,
disciolto in una pozza acida blu.
"Mi spiace, amico. Non ho quello che
cerchi", gli dico scrollando le spalle,
e alzo i tacchi.
"Largo, largo, muovetevi!", grido
spazientita facendomi spazio a forza tra
la folla. Le membra digitali dei pazienti
crollano come aghi di ghiaccio al mio passaggio,
ma il guercio è ancora lontano. Lo vedo appena,
è giù, nel pozzo. Allora scendo. La lama
mobile della scala sputa e ribolle, e il
mio ventre blu si riscalda e si lava delle
cellule verdi.
"Dove sei diretto?", mi fa il guercio
affilando le sue seghe elettriche.
"Al reparto degli altiforni".
"L'altoforno è chiuso oggi. Torna domani".
"Non dire stronzate! Sono venuta apposta!
Donovan deve ricevermi".
La sua mano blocca le due seghe. "Donovan
non riceve nessuno".
Ha la testa lucida, il cranio fermo e nodoso
come un nervo drogato. Ha una vestaglia elettrica
che brilla come l'alcool, ma non ne possiede
la forza. Afferro una sega, e la sua mano
è già lontana.
"Cartapesta...", sussurro piano.
Ormai ho un tuboingresso davanti a me, un
infermiere senza gambe passa spingendo un
carrello. Si volta spesso, ma io accendo
un altro sigaro. Rimane tutto deserto. E
la mia voce.
"Guardati dalla lepre rossa".
III MESSAGGERO
Un mucchio di carta di mele sulla scrivania
a 60°. Nessuno sente il peso della polvere
qui negli altiforni.
"Non sono riuscita a trovare l'accesso
al terzo quadrante. Tu ne sai qualcosa?",
chiedo.
Donovan ha un'espressione contratta nel volto
di pustole grigie. I suoi riccioli in sughero
scendono sul collo nudo e livido come lebbra
assetata d'amore.
"Vorrai scherzare. Di notte non è permesso
avvicinarsi allo stomaco dell'orologio. Potresti
salire su per il montacarichi, ma poi ti
ritroveresti nel primo quadrante, e da lì
per arrivare al terzo, è come al punto di
partenza. D'altronde, di giorno i quadranti
si smontano, e l'unico accesso valicabile
è quello che conduce al condotto generale
del mattatoio libero, il che significa, chiunque
vi passi è contrattato come schiavo dalle
rane".
Straccio un foglio e lo mastico. "Ti
sbagli. Non c'è alcun mattatoio libero, se
non nella tua testa", le dico decisa.
"Io vivo qui dall'avvento del calendario
lunare, cioè da molto più tempo di te. Non
sono un mercante, sono un macchinista della
miniera numero settemilaottocentoventi, altoforno
diciotto", declama con orgoglio. E poi
sibila: "A me, il vento, non mi ha mai
cercata...".
"Non può avermi convocata, ti sbagli
di grosso", tuono seccata. "È impossibile.
Non è qui".
Si alza dalla scrivania e mollemente avanza
verso la gola del primo altoforno. I suoi
tacchi risuonano come metallo gonfio sulle
pietre.
"Che cosa ti fa essere così sicuro?",
mi fa guardandomi con aria ironica. Il suo
ginocchio piatto e oblungo come un pipistrello
pulsa e s'infiamma a contatto di una leva.
"La lepre rossa mi ha assicurato che
resterà distante per molto". Faccio
un passo. "Ci sono molti cavalli da
uccidere".
"I cavalli non hanno sangue, Aiscia.
E comunque non potrai mai arrivare a sterminarli.
Il cuore dell'orologio te lo impedirà. Le
rane lo assaliranno fra due lune, e una neve
spessa come una colata di asfalto seppellirà
i corpi".
"I cavalli non hanno corpi", affermo
di colpo. Ora non può sfuggire alla mia morsa
d'acciaio. Ho il suo collo tra le mani. "Sei
stata tu a chiamarmi, Donovan. Adesso non
puoi tirarti indietro".
Le sue unghie sibilano qualcosa d'indecifrabile,
poi il sibilo diventa un fischio, e il fischio
un rombo, e il rombo un uragano, finché la
sua immagine scolora, graffiata, distorta,
avvitata, nel silenzio dell'imene.
Entro nel primo altoforno e giungo nei sotterranei.
IV IL TEMPIO
Un levriero biondo mi accosta. Il suo ciuffo
è ritorto e uncinato come un bel rubinetto
d'alluminio. Apre il becco, e so che dovrà
parlare.
"Una volta entrati qui, si può, e si
deve, anche morire".
"Perché? Non siamo forse già morti abbastanza?",
gli faccio porgendogli un sigaro. Lo rifiuta.
"Autocombustione?". Annuisce. Sfoggia
orecchie di porcellana, che mi conducono
in un salone addobbato con grandi cuscini
di luce. Danzatori del ventre esibiscono
i polipi dei loro seni ad un fachiro luminoso.
Una lingua verde è appesa al suo collo, viva.
Applaude lentamente e con garbo allo spettacolo.
Sembra disteso su di un lungo ed alto trono,
ma non vedo nessun trono. Sarà invisibile.
Fa avvicinare uno dei danzatori e afferra
i suoi polipi con gusto, li strizza, li munge,
sghignazza. Alza la testa e volge lo sguardo
verso di me.
"Vieni avanti, straniero". Fa un
gesto pretenzioso. "Ti aspettavo".
Si alza e procede a passi lunghi nel salone.
"La tua follia placherà le mie gambe".
Già. Due botti astrologiche che cambiano
direzione con il soffio del sangue.
"Raccontami dei tuoi cavalli, delle
tue scorribande. Avremo tanto tempo da passare
insieme, fino all'arrivo del vento".
Mi volto, gelida, verso di lui. "Il
vento non arriverà mai, e tu lo sai benissimo".
"Certo, mio caro, come tu desideri.
Sai, c'era un tempo in cui credevo ai ciechi
e alle cimici scoppiettanti, ma poi l'erba
di zucchero mi ha portato via, e la terra
è caduta sotto i miei piedi".
Bisbiglio su di un danzatore, che venga da
me.
"Il commercio procede regolarmente.
Il sangue dà i suoi frutti", riflette
soddisfatto.
Inizio a stuzzicare il danzatore con il mio
ombrello. "È per questo che hai lasciato
che arrivassi fin qui?".
"Che cosa c'è?", avanza il santone
piegandosi sulle ginocchia. "La lepre
rossa non gradisce più il mio tempio?".
Poggio l'ombrello sul cuscino più vicino
e ci distendo il danzatore.
Il fachiro indietreggia, appoggiandosi al
suo scettro di germogli fermentati. "Voi
agenti siete molto curiosi...interessanti...da
studiare".
Esibisce i suoi occhi neri e tondi come due
gusci di noce. Allora mi volto a guardarlo.
Accendo il mio sigaro.
"Scommetto che ti avranno pagato davvero
bene per mettere su questa farsa. Il sangue
di Donovan non sarà certo bastato",
gli dico fissandolo negli occhi.
"Lascia stare Donovan. La sua parola
non vale niente in confronto alla mia".
"E le rane devono ben saperlo, non è
vero?", annuisco amara.
Si ferma. "Non ti ho fatto certo venire
fin qui per sentirmi ripetere cose che conosco
già. Tu sei prezioso per il nostro condotto,
e il tuo traffico ci frutterà almeno trecento
vasche".
Un fulmine attraversa i miei occhi. "Non
sono stata assoldata per questo, né ho alcuna
intenzione di esserlo".
Mi osserva con fare sbalordito, curvando
il suo teschio. "Il sangue è tutto,
mio caro. Senza sangue, il tempio non avrebbe
senso".
"Il tempio non dà alcun giovamento agli
agenti. E questo la lepre rossa lo sa benissimo".
"Ma lei rimane comunque il fulcro del
crocevia", osserva con voce da serpe.
"Ti sbagli. Non è come i dottori e le
rane. Non è questo ciò che vuole", ribatto
sicura.
Striscia lungo i fari di luce languido, mortuario,
come il maroso di un serpente. "Ah no?
E allora cosa sei venuto a fare qui?".
Si adagia sul morbido trono. "Esiste
per te una ragione per tutto?". Uno
squillo illumina il suo volto. "Hai
mai vegliato nel viale del sangue ibernato?
Ti sei mai chiesto perché il sapone tiranneggi
sulle nostre unghie? Che cosa è per te la
lente dell'ozono?". Si ridestano, come
da un lungo coma, le sue gambe, roteando
nell'aria. "Il mondo è una nostra invenzione,
seppure una cancrena che devasta una piaga
dopo l'altra. La solitudine squarcia il cielo
delle mutazioni, ma nessuno di noi sa come
domare le acque". Continuò:
"Ci sono molti segreti rimasti insoluti,
e tu vorresti forse penetrarli, o penetrarvi
tu stesso. Ma è così vile chi varca la soglia
della verità se non riconosce la menzogna".
"So cos'è la menzogna. Tu stesso me
l'hai insegnata", rifletto.
"E feci bene, perché senza il seme della
menzogna adesso saresti un fuoco di fotosintesi
estinta. Non puoi rifiutare il mio aiuto".
"Questo non ti dà alcun diritto sul
mio traffico. Il mio accordo riguarda soltanto
me e la lepre rossa, e nessun altro",
lo taglia la mia voce secca.
"Il tuo errore sta lì dove la sofferenza
scompare. Non riesci più a trovarlo e ora
vuoi prendertela con me".
"I tuoi giochetti non varranno la mia
collaborazione. Mi hai inondato dello sputo
delle tue viscere, e ora vorresti rinchiudermi
qui, in questa gabbia di rottami? Ma guarda
che cosa hai attorno! Umanoidi in sfacelo,
sanguisughe di sale e piante di ruggine sonnolenta.",
sbraito contro di lui."Per me non c'è
posto qui", dico poi secca.
A fatica, le sue gambe atterrano sul ventre
di un danzatore gigante, per placarsi definitivamente.
"Hai ragione. La tua corazza è molto
più aspra di quanto credessi". Le sue
labbra si chiudono per un momento, dietro
il velo della luce, poi si riaprono, piano.
"Ricorda: il terzo quadrante si aprirà
soltanto quando le ombre periranno".
E le ombre giungono, alfine, e affondano
ogni spazio del tempio idrofobo. Una fessura
si espande dalla fronte del fachiro. È rossa
e fluida, come il bisturi della melagrana.
Mi faccio spazio tra le sue ombre ed entro.
V RICHIAMO
Il bagliore cupo delle rotaie taglia la linea
del mio orizzonte. L'aria devastante blu,
di un blu ancor più elettrico e lunare del
deserto, si alza come un'orda di squame,
attorno ai binari.
Accendo il mio ultimo sigaro con fredda noncuranza.
Il mio ombrello è ormai quasi incenerito.
Pare cartavelina appannata, sradicata dal
caldo più caldo che possa esserci, via dal
suo rifugio di colla. Ciottoli di scarni
granchi di calcare si susseguono irregolari
sulla piattaforma. Gli anelli di nebbia del
mio sigaro volteggiano nella stepposa atmosfera.
Poggio l'ombrello a terra, sollevo la tesa
del cappello, mi volto, ed è lì. Nove soli
scorrono lungo il fiume azzurro dell'Idea,
e io devo scoprire quale di essi mi appartiene.
Afferro la valigia e avanzo, passo dopo passo.
"Aiscia, fermati!".
Mi fermo. Il peso delle mie orecchie si fa
più forte. Continuo a fissarlo lentissimamente,
e non lo vedo, quel richiamo, lo sento soltanto.
Non guardo nella sua direzione. Resto di
spalle.
"Tutto ciò è folle, e lo sai".
Pausa.
"Pensa al vento".
Riabbasso la falda del cappello, con estrema
calma. "Io non sono un mistico, e so
quello che faccio, perciò togliti di mezzo",
esplodo infine con fare calmo.
"Così facendo certo non otterrai i tuoi
insulsi cavalli", insiste la voce.
Un fruscìo, un pallore, sui miei occhi.
"Nessun fiume azzurro sarà visibile.
Mai", persiste ancora.
È mezzogiorno. Gli schermi dell'orologio
si irrigidiscono. Un tremore scorre lungo
la grata dei quadranti. Poi uno scricchiolìo
ne corrode freneticamente le ossature, finché
le crepe si dilatano, e i petali di colata
magnetica si dischiudono. Nel terzo quadrante.
"Aiscia!".
Spengo il mio sigaro e procedo, incantata.
"Lasciami andare".
LUNA DONNA |