LAURA SILVESTRI Nata nel 1958, vivo e lavoro come insegnante a Cuneo. Oltre a scrivere mi occupo di arti visive e di danza contemporanea (precedentemente come performer ed ora come coreografa).







Il testo che presento faceva parte originariamente di un lavoro più ampio che è poi stato pubblicato dalla casa editrice Palomar con il titolo Canti di lontananza. Per scelte editoriali tuttavia questo racconto non è stato inserito. Ve lo propongo perché in realtà ha una sua strutturazione autonoma e può dunque essere letto come testo a sé.
Il romanzo da cui è tratto ruota infatti intorno ad un personaggio che, forse per una ferita, forse per una malattia che abbia colpito la sua memoria, non ricorda la propria storia. La sua unica salvezza, per non precipitare, è raccontare storie, inventare se stesso in ogni istante attraverso una narrazione ininterrotta.
La scena si affolla in questo modo di voci, storie, spazi all'apparenza diversi e separati. Il guardiano di un inutile faro, un profugo da un paese in guerra, un ex terrorista rinchiuso in un ospedale psichiatrico, un uomo che sceglie di vivere per strada, un cinico seduttore...
La scrittura tocca così, attraverso l'alternarsi delle voci, momenti e problematiche del mondo di oggi, ma propone anche una riflessione sull'identità contemporanea incerta, frammentata. Di fronte alla quale la scrittura/narrazione si presenta come possibile ancora di salvezza e speranza di riscatto, di ricomposizione.
Nel caso del testo che vi propongo, il protagonista gestisce un anonimo motel di quelli che tante volte il cinema americano ci ha mostrato. Da lì passa un'umanità perlopiù smarrita, solitaria, altrettanto anonima. Non così però per la coppia che si presenta una sera, e soprattutto per la giovane donna, che da subito colpisce la sua attenzione...
Il personaggio femminile di questo racconto mi è molto caro; nel crearlo mi sono tra l'altro ispirata ad un'immagine della fotografa Nan Goldin e che s'intitola appunto Trixie on the cot.






Nan Goldin-Trixie on the Cot, 1979




TRIXIE

Un'ancora è l'insegna, specchietto per le allodole sperdute, col neon rosso e giallo che lampeggia e sfonda il buio che c'è intorno, scalda l'aria della notte... e tutti quando arrivano, prima ancora di chiedermi il prezzo, mi fanno - Ehi, che strana idea, Anchor's Motel, pensare che il mare da qui per vederlo lo devi sognare. O c'è chi mi ringrazia - Hai ragione, capo, mi dice, ci vuole qualcosa per inchiodarci a terra, col vento che tira stanotte... Allora, ogni volta dovrei ripartire di nuovo con quella spiegazione che mi son fatto nella testa quel giorno che allo sfasciacarrozze là sulla Highway al chilometro 325 ho chiesto di scovarmi dei bei paraurti azzurromare o verde alga o blu-fondo-oceano e quello, stai certo, ha girato la testa dall'altra perché, lo riconosco, tutto quel parlare di acque marine, quassù, sapeva un po' di presa per il culo. E invece è così, gli dico, voglio farci una bella ancora, per quelli che verranno al motel, sbattuti dall'aria gelata, sbilanciati e un po' ondeggianti per chissà quale malessere atmosferico o sventura... ma più ancora per me, un monito, un promemoria accendi-e-spegni di lampadine colorate per tutte le volte che si apre la porta e dietro il vetro appare un'altra faccia. Perché ci vuole un bel fegato a prendersi addosso come fagotti che lievitano, di gambe e teste e metastasi deformi, prendere e sopportare, quasi amare le troppe infinite agonie che si trascinano fino a noi, ci passano vicine e ci costeggiano con i loro fiati cattivi. E se per caso sei stato fregiato - ma è sfregio piuttosto, ferita che sempre si apre, e insomma grandissima sfiga - di quel sentire attento ai detriti e alle macerie, ascoltatore tuo malgrado di suburbie... allora ti tocca ogni volta comprendere il nuovo danno, anzi finisce che te lo ritrovi dentro, incastrato, ficcato nella carne proprio come uno schizzo di materia impura, estranea e tuttavia già pronta ad ambientarsi. Ma per fortuna c'è un limite al nostro sopportare visione e suoni di tristezza che arrivano anche da bocche chiuse, da volti sigillati e impenetrabili, quando entrano qui dentro e ti chiedono una stanza... una barriera all'inquieta sensazione e quasi vertigine, che sia cioè un banale caso se non è tua quella curva delle spalle, lo spazio grigio della fronte e il destino di vita che si porta... un imprevisto disporsi di molecole se non ti è stato dato un altro cammino. C'è un limite, per debole e fiacca fantasia, troppe vite simultanee non riusciamo a immaginarle, e così ci salviamo. E' l'ancora, insomma, che come un richiamo sospeso sul mio capo m'invita a interrompere l'inchiesta, a ritrarmi... e quindi lascio correre, se mai il cliente vuol sapere e gli sembra soltanto un capriccio, accenno con gli occhi e per tutti ogni volta è abbastanza, e se ne vanno alla camera e subito dimenticano quell'infantile curiosare. Ché tanto di dubbi ne hanno già da vendere, da starci su l'intera esistenza.
Dunque, un gran carico di insopportabile, di scarti indigeribili. E non sono solo i dolori, le pene infinite, no, che allora ne faremmo un esercizio di ascesi capovolta, rivoltata sottosopra, e sprofondando in quelle angosce raggelate ci si potrebbe lastricare un sentiero privato al paradiso, la croce su misura da cristo che tutto comprende su sé fino a farsi sanguinare... ben peggio sono le vite insulse che arrivano fin qui, pericolose, inquinanti, tanto che se anche cerchi di chiudere gli occhi gli indizi che lasciano in giro ti arrivano in testa, ti si scodellano in faccia, quasi ti si aggrappano per l'ansia di mostrarsi. Dico le vite ordinarie, quelle che si spengono per via come per lento esaurirsi del sangue e aggrinzirsi del cuore, quelle in cui tutto sembra messo al suo posto, giardini e vialetti d'accesso, messinpieghe, pieghe dei calzoni, contenuto della borsa da viaggio.
E te ne arrivano a decine, anche quando, per abbaglio, ti aspetti un po' di movimento e chissà quale scarica di novità e storie interessanti. Come quella volta che qui intorno hanno girato un film e per qualche notte gli artisti, così li chiamano, hanno dormito al motel arrivando a notte fonda coi fuoristrada infangati di finta neve per via della vicenda ambientata in inverno. Avranno scelto questo posto, mi dico, per il cielo di certe giornate, basso e pesante sulla strada. Scena centrale, la poliziotta incinta arresta il criminale proprio mentre quello è occupato a triturare il complice in una macchina per fare segatura... ci vuole un cielo come il nostro, appunto, da toglierti l'aria per mancanza di orizzonte. Nel film, mi raccontano, la tipa, fatta rapire dal marito per un riscatto di ottantamila dollari che dovrebbe scucire il padre di lei, finisce nelle mani di due tizi veramente raffinati. Per dire, stanno per fare il colpo ma sulla strada gli cade l'occhio sul Blue Ox e cosa c'è di meglio prima del lavoro di una pausa a base di frittelle e puttane... e solo dopo se la portano via incappucciata che si dimena come un'anguilla. Da lì in poi è tutto uno scorrere di osceni dettagli, tanto son stupide quelle esistenze, di gente vuota e piatta che guarda la tv, s'ingozza, telefona e poi spara nei parcheggi, ingurgitare hamburger non è troppo diverso dal menar colpi con l'ascia, e se per caso arriva uno strano rumore dalla veranda la donna allontana a fatica gli occhi dallo schermo mostrando la bocca mezza aperta e piena di cibo. E la poliziotta eroica... è ancora più gonfia oltreché incinta e quando non spara guarda documentari sulla vita degli animali, e mangia, mangia fino a perdere nozione del tempo, quello necessario per far scendere una gamba e poi l'altra dal divano e andare per il mondo con qualche sincronia.
Allora, questi del film arrivano al motel alla fine del lavoro e il bello è che sembrano goffi e appannati come i loro personaggi, scambi verbali di appena qualche monosillabo, sintassi smozzicata, si trascinano alle stanze simili ad animali un po' appesantiti e assenti come per un attacco cerebrale che li abbia ricondotti d'un tratto a un'infanzia primordiale, ma con corpi ormai logori. Non uno che dica una frase sensata, neanche una fiammella di avventura ho intravisto ad animargli le esistenze.
Ma il vero problema... è che tutta la gente qui intorno è così, non è questione solo di un film, di una recita che per un po' blocca la vista su un mondo desolato. Che tu uscendo da qui vada ad ovest oppure, girando la testa, ti faccia abbindolare dall'opposta direzione, qualunque strada tu prenda, non troverai respiro. Puoi scegliere, praterie polverose e per chilometri sempre la stessa striscia di asfalto, città mezze abbandonate di case basse, balconi sbriciolati, una strisciante diserzione che sembra senza motivo, come se per un passaparola molta gente avesse deciso di sloggiare, svuotare le stanze, o forse dopo un po' non gli è piaciuto più quel tremolio sotto il culo ogni volta che i generali qua intorno decidevano un nuovo esperimento, un bel terremoto nucleare sotto il culo, una gaia corrente radioattiva che andava a rinfrescargli l'acqua per irrigare il giardino e a concimare i campi di segale e patate. Neanche gli piace un granché l'idea di dormire su un tappeto sotterraneo di missili balistici pronti e puntati verso il cielo e seminati a centinaia nella base militare ch'è il gioiello della zona. Allora in giro non vedi quasi nessuno, nelle strade cittadine, ma se vuoi trovare un po' di people non hai che da uscire un po' fuori, alle periferie. Sono tutti a riscaldarsi sgomitando l'uno nell'altro e cozzando di pance e di sederi, tutti nel centro commerciale più vicino ad annusarsi e a rimpinzarsi, entrano al mattino e sembrano non volere più uscire, fino a sera li vedi penetrare così numerosi che lì dentro t'immagini situazioni preoccupanti, tragici calpestii, ossa che s'incrinano negli urti. A tratti per fortuna le porte girevoli ne sputano fuori piccoli mucchi, scomposti e un po' arruffati, e poi ad eliminarne alcuni esemplari presi a caso, e senza preconcetti, ci pensa di tanto in tanto qualche killer che se ne sta acquattato nel piazzale tra i bidoni e i carrelli della spesa e con buona ispirazione si dà a ripulire un po', sparando qua e là.
Questo è il nostro paesaggio, questa l'umanità che ci hanno dato in sorte. Perciò un giorno ho deciso di comprarmi il motel e di fermarmi qui dentro, diciamo per ridurre le brutte sorprese lasciando al caso se mai gli incontri che avrei fatto, magari qualche sperduto autista che dalla US2 scantona di un po' di chilometri, e chissà cosa cerca, per fermarsi una notte pensando però che qui non ci vivrebbe neanche a pagarlo e come si può sprecare i propri giorni in questo deserto di polvere gelata e strade diritte dove l'unica festa che ti aspetti è che, per favore, compaia una luce, un'insegna, uscendo fuori dalla nebbia come in un brutto telefilm, la pompa di benzina, il lampo rosso che t'invita, vacancy clean quiet, e quei nomi improbabili perché certamente solo in posti come questi, e solitudini che ti fanno inebetire, può venire in mente al proprietario di chiamare quel suo buco Liberty o Nike o Judy o che altro, non c'è limite... alla nostalgia. Anchor's Motel, in fondo, è ancora il nome meno strano... solo un'offerta, un pensiero gentile, per chi viene a perdersi quassù.
E certo che a quei due qualche ormeggio sarebbe servito, a giudicare da quanto mi è finito sotto gli occhi quel mattino. Arrivano qui a notte fonda, notte freddissima di novembre, appannata, umida, quelle notti che quasi ti convinci di essere arrivato al capolinea, per sfinitezza, consunzione non tanto di desideri, che quelli si sono consumati e rarefatti già da un pezzo, ma di attese piuttosto e minime, sì che disperi perfino che torni il giorno e faccia luce ancora una volta. Rieccola invece, la mattina, e ti tocca vedere e ascoltare e di nuovo provare la pena che volevi per sempre abolita.
Gli ho dato la chiave della cinque e dalla porta li ho guardati andare lungo il muro e poi svoltare, lui davanti, magro e quasi sghembo sulle gambe, quel modo inconfondibile di buttare il passo da artista o pseudo-intellettuale giovane e già molto arrogante, e dietro la ragazza, ma sembrava veramente una bambina, col nastro tra i capelli e un grande mantello che le arrivava fino ai piedi. E nel parcheggio han piazzato la Buick sgangherata color verdemare - guarda un po' - e una vecchia roulotte. Ma stanotte si dorme nel motel...
Lei camminava davvero come una bambina un po' impacciata, come avesse ciabattine leggere, orientali, o forse era solo il pastrano che le ingombrava le caviglie. Li vedo svoltare e sparire dietro l'angolo e me ne torno dentro e non capisco bene, ma quel gusto di ultima fermata e capolinea stasera riempie la gola e fa male più del solito. Me ne vado diritto a dormire. Ma la mattina arriva prima del previsto come una burrasca livida, qualcosa che ti buca lo stomaco e la testa e si fa strada sbattendo e scantonando nella luce che fatica a sollevarsi, a ripulirsi.
Era un grido sottile e continuo, che a tratti si spezzava col respiro, ma poi risaliva, secco, sdegnato ma forse solo per un dolore ormai stanco. Esco fuori e non c'è proprio ragione eppure le gambe mi portano alla cinque. Non c'è nessuno ma tutto è a posto, perfino più pulito e ordinato, mi sembra, di come gli avevo lasciato la stanza. Non si spegne però quell'onda acuta di voce e questa volta so, come sentissi l'aria smuoversi incrinata. Nel parcheggio, bloccata sull'asfalto e goffa, è rimasta la roulotte, come una navicella appesantita e derubata delle acque. La porta è spalancata, tutta piena del respiro incrinato. Ma la prima cosa che vedo non è voce o carne... solo una strana luce, come di membrane eccitate, una gialla vibrazione che arriva dal fondo, da quell'orrenda cella frigorifera che nasconde la parete, dal funebre acquario che subito, chissà perché, mi ricorda il passo sghembo dell'artista, l'insolenza di questi giovani che credono di aver capito e uno come me lo guardano appena. E poi ti lasciano davanti al motel un tale funereo ingombro, che chiamano arte... c'era un giardino tropicale, dietro il vetro trasparente, un ammasso di minuscole piante fin troppo rigogliose eppure già morte nel loro brodo raggelante di silicone liquido a meno venti, per sempre fissate in quell'apparenza di vita. E pesci, e uccelli, e altre anatomie in formalina, bloccate, sospese. Solo uno stupido insolente può costruire una tale oscenità. E divertirsi a ficcarla in una roulotte fino quasi a riempirla e portarsela poi in giro per le strade del nord...
Ma infine con forza ho strappato gli occhi, quello strido continuava quasi seguendo un suo disegno, lì dentro... Era seduta su una piccola branda, l'unico altro oggetto oltre alla gelida cella, sembrava presa dal delirio come in quei riti in cui al risveglio ti attraversa la follia se un qualche tuo nemico, mentre dormi, ti cambia l'abito o ti ricopre il volto di una nera tintura. E veramente pareva appena riscuotersi da un sonno portatore di sventura, per il viso abbassato e la mano quasi a coprire gli occhi, ma assomigliava a biacca la materia con cui le avevano nascosto la pelle, uno spesso strato quasi a voler cancellare ogni traccia anteriore, ridurre ogni segno o piega ad una distesa sfocata per eccesso di bianco, così che il rosso della bocca truccata sembrasse ancora più uno strappo, uno sfregio di sporco sul pallore. Portava ancora quel nastrino di raso tra i capelli ma adesso potevo vederne uno uguale alla caviglia, sovrapposto in arabesco al serpentello tatuato. Le babbucce di velluto, nere... e quell'incredibile abito di taffetà, che forse già nascondeva sotto il pastrano, bianco e trasparente come il viso, e come le labbra segnato da un rosso irreale, fanciullesco, nei grandi fiori aperti lungo il bordo. E nell'umido di quel mattino, le braccia nude e lisce, quasi di puttina... così se ne stava, carica di ornamenti, dipinta e sfuggente nella sua vera natura, come un acrobata che nasconde il sesso e l'età dietro la maschera eccessiva, e continuava ipnotica il suo verso che neanche un respiro aveva mutato da quando ero comparso sulla porta.
Ma forse invece mi aveva visto, perché adesso nella linea di quel canto stridulo entravano parole appena comprensibili, come inserti smozzicati giunti chissà da dove a modulare il grido.
Alla fine, diceva, l'ho mandato via alla fine, separato cacciato per sempre, su altre strade infinite ai quattro punti cardinali... ma la cella, le viscide piante, gonfie di morte succhiata aspirata, al silicone... quelle sì che me le lascia, non certo il cuore... e io, io che non ho ali, solo tesori fragili, e neanche isole odorose, per quanto desolate e deserte del suo passo. Qualcuno mi tirerà su, mi toglieranno di dosso queste perle appiccicose. Ma c'è un prezzo per spiare le mie cicatrici, c'è un prezzo per ascoltare il mio battito leggero...
E questa frase, l'ultima, la ripeteva di tanto in tanto come per un fiato che torna a frantumare il ritmo. Ma non capivo, mentre restavo lì a guardarla come un incanto incomprensibile, cosa fosse scompiglio più grande, se quello strido irritato senza possibile conforto o le terribili parole, come arrivate da un tempo lontano e a lei anteriore per una pena, smisurata pena.
E inconciliabile. E così sconveniente a quel liscio pallore di braccia rotondette, da fanciulla.


LUNA DONNA